Drammatico, Recensione

MANTICORA

Titolo OriginaleMantícora
NazioneSpagna
Anno Produzione2022
Durata115'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Julián è un uomo che crea mostri, lavorando come game designer. Un giorno, nell’appartamento accanto al suo scoppia un incendio…

RECENSIONI

La manticora è un animale mitologico, sorta di chimera che unisce tratti provenienti da diverse creature (testa umana, corpo di leone, coda di scorpione), la voce di un bestiario immaginario che trova la sua origine in Asia ma che, mutuata anche dalla cristianità, ha finito, in questo contesto culturale, per identificarsi col Diavolo. È, in definitiva, un mostro, come quelli che disegna Julián, il cui lavoro di computer-grafica apre il film. Significativamente, perché proprio nel rapporto tra reale e virtuale risiede uno dei suoi nodi: l'esistenza di una morale nel mondo virtuale, i suoi eventuali limiti e quanto essa può investire il semplice desiderio, quello non agito, quello che resta a livello di pura pulsione, insoddisfatta. Perché la manticora del titolo, in definitiva, è proprio lui, Julián, percepito come un mostro perché, improvvisamente, incontrato un bambino, suo malgrado e dolorosamente, ne resta fatalmente attratto. È un richiamo da cui il giovane tenta di non farsi sopraffare, ma che controlla attraverso il suo talento di modellatore grafico: crea, dunque, con un software della compagnia per la quale lavora, un clone virtuale dell’oggetto del suo desiderio e su esso si masturba. 

Carlos Vermut si inoltra, insomma, in un territorio minato - oggi tendenzialmente impraticabile - per esperire, con la sua scrittura geometrica, il teorema del subire una passione e come contenerla. Quello del regista è anche un discorso implicito sulla rappresentazione e, nello specifico, su un cinema che da decenni ha messo al bando i tabù effettivi, rifugiandosi in un più semplice e assolutorio épater le bourgeois; quello stesso cinema che, se non ha remore nel mettere in scena violenza sanguinaria, esaltandola anche esteticamente, ha molte più resistenze (per non dire barriere quasi invalicabili) nell’affrontare una storia come questa, quella di un giovane alle prese con un desiderio oscuro. Che gli rovina la vita: l’incendio dell’inizio - dal quale Julián salva il bambino - gli devasta l’anima, come se il fumo inalato fosse un veleno sottile: il bimbo si fa pensiero fisso, attacco di panico, impotenza sessuale. Solitario da sempre, rinchiuso com’è nella sua bolla (cuffie e visore lo proiettano in una dimensione altra), preda ora di un segreto inconfessabile, Julián incontra Diana. La sua vita sembra prendere allora un’altra piega: tenuta lontana quella passione insana, eliminato dal pc il feticcio virtuale, il giovane sembra riprendersi. Ma la donna, lo vediamo, somiglia tantissimo a quel bambino, è una sorta di altro suo clone incarnato, come se il suo sembiante (non a caso diverso da quello che appare nelle fotografie di famiglia) fosse frutto della visione soggettiva del protagonista che veicola su una ragazza, quindi su una creatura “legittima”, il suo desiderio illecito. Come se la mente di Julián avesse plasmato della ragazza una diversa immagine, a suo uso e consumo, per una redenzione, così come gli strumenti tecnologici gli avevano consentito di creare il doppio inesistente del bambino, per ingannare la sua voluttà.

E la donna è un’altra persona problematica che sembra avere col padre un rapporto morboso: l’accudimento, dietro l’affetto filiale, sembra celare una sindrome di Wendy (il dare priorità al bisogno degli altri, sacrificando se stessi). Così la finale infermità di Julián diventa condizione che ribalta il rifiuto e il disgusto di Diana nei confronti del giovane all’indomani dello scandalo, convertendoli in automatica, morbosa assistenza. In questo senso il finale del film che unisce due individui diversamente interrotti, nel suo concentrare colpa, espiazione, sacrificio, remissione, mi pare avere qualcosa di profondamente buñueliano. Il maestro spagnolo, del resto, mi sembra sottilmente attraversare la filmografia di Vermut, intessuta (lo fa notare anche Alessandro Ronchi nella recensione di  Chi canterà per te?) di riferimenti continui alla storia del cinema, i più vari (a Bella di giorno, mi pare, ad esempio, riconnetersi il filo narrativo di Magical Girl in cui Bárbara esercita la prostituzione, con l’apoteosi del mistero mai svelato della “stanza della lucertola nera”, cfr. la celeberrima scatolina).

Vermut poi ci mette la sua messa in scena clinica, di grottesco tutto sottotraccia (quasi ferreriano), che nutre una narrazione a combustione lenta e a ritmo costante, come sempre implacabile, a sottintendere l’ennesima quadratura fatale che non sottolinea né enfatizza i punti più controversi della storia, rendendola anche per questo ancora più disturbante, lasciando che essa lavori sullo spettatore.
«Non è reale, non ho fatto male a nessuno», dirà Julián a Diana: è qui che Vermut tocca un punto delicatissimo, la liceità di un desiderio che rimane tale, la condanna sociale (e quella possibile del film) derivante dall’aver soltanto pensato una cosa mostruosa. Per questo la scena in cui Julián va a casa del piccolo e lo droga è una delle più disturbanti e perversamente potenti viste negli ultimi anni: non solo perché si avverte tutto il dilemma del protagonista - il suo mettere alla prova la sua ossessione su un piano reale, non gestendola più soltanto nell’immaginazione -, ma soprattutto perché avvertiamo per la prima volta come possibile la traduzione in atto violento di quella pulsione. Una enormità che chiama di nuovo in causa lo spettatore, mettendone in discussione l’atteggiamento fino a quel momento di compassione ancora possibile.
Un’opera che, senza la scappatoia della gratuita provocazione, ha il coraggio di essere davvero scomoda nel suo non proporre morali o chiusure rassicuranti a rabbonire le coscienze.
Mio film del 2022, senza rivali.