Drammatico

MANDERLAY

Titolo OriginaleManderlay
NazioneDanimarca, Svezia, Olanda, Francia, Germania, U.S.A.
Anno Produzione2005
Durata139'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Grace ha lasciato Dogville ed è approdata a Manderlay. Qui un gruppo di “negri” vive ancora in condizioni di schiavitù sotto i bianchi, ma forse si può fare qualcosa…

RECENSIONI

Alabama 1933. 8 capitoli. 7 tipi psicologici. 139 minuti. Questi i numeri di Manderlay, secondo episodio della trilogia sull'America di Lars von Trier. Ebbene, diciamolo subito: il film segna una vistosa battuta d'arresto nel progetto del talentuoso e controverso cineasta danese. In bilico come al solito tra cialtroneria e genialità, von Trier prende di petto la questione razziale, portando la sua Grace nel sud degli Stati Uniti e inasprendo la già scorbutica impostazione stilistica di Dogville. In cerca di un nuovo territorio da conquistare, il padre di Grace, scortato dal suo piccolo esercito di gangster, si  ferma in prossimità di una cittadina delimitata da un'imponente cancellata. Una donna di colore si precipita verso di loro e inizia a parlare ex abrupto: stanno per frustare ingiustamente un "negro", la legge dei bianchi è assurda e brutale, è puro arbitrio. Grace, la caritatevole ed idealista Grace, non riesce a disinteressarsi del problema e decide di fermarsi a Manderlay.
Anche in questo caso la città è ricostruita scheletricamente in un teatro di posa, la scenografia mescola elementi realisticiad indicazioni disegnate sul terreno e una ieratica voce narrante accompagna il racconto rigorosamente scandito in capitoli. L'obiettivo, come in Dogville, è palese: riprodurre la cellula comunitaria in vitro (gli elementi urbani non sono eliminati in chiave allegorica, ma per garantire una visibilità integrale, totale), isolarne le componenti virali, indagare l'Elemento del Crimine. Una radiografia impietosa di un sistema di oppressione e umiliazione, in una parola. E ancora una volta, proprio come in Dogville, lo sguardo panottico finisce per rovesciare l'impressione iniziale: quello che sembrava un sistema di prevaricazione e sopraffazione progettato dall'uomo bianco si rivela, al contrario, un ordinamento scritto da un nero per proteggere l'intera comunità, un organismo giuridico basato sul minore di due mali, la schiavitù anziché la fame e l'insicurezza. Anche stavolta lo sguardo in profondità scopre una verità paradossale: la legge di Mam è anche la legge di Wilhelm. È una legge per il bene di tutti.
Che cosa cambia dunque rispetto al primo capitolo della trilogia americana? Pur nella sostanziale continuità dei due film, è impossibile non rilevare un netto depauperamento visivo e tematico. Quello che colpisce immediatamente in Manderlay è l'esasperazione dell'approccio estetico di Dogville, ma di una radicalità che, lungi dall'acuire la ferocia analitica del primo film, sconfina nell'immiserimento stilistico (e qui stile è da intendere più che mai come trattamento della materia). Detto altrimenti, se in Dogville von Trier lavorava sul contrasto tra molteplici aggregazioni tematiche (arroganza e accettazione, diffidenza e tolleranza, paura e aggressività), facendole esplodere nel testo in un crescendo drammatico di rara potenza, in Manderlay la complessità problematica si contrae in una rosa ristrettissima di questioni, finendo addirittura per cristallizzarsi nel monotematismo dell'attrazione/repulsione di Grace per il colore della pelle di Timothy («Pelle nera, nera potenza virile», sentenzia la voce over). Anche dal punto di vista del linguaggio filmico von Trier dà un giro di vite soffocante all'impostazione visiva di Dogville, immergendo il set in «tenebre quasi bibliche», accentuando la frenesia dei movimenti di macchina (molta camera a spalla, ovviamente, e un'infinità di zoom) e frammentando ulteriormente l'angosciosa febbrilità del montaggio. Ma se in Dogville gli affetti evocati e subito allontanati costruivano uno spettatore profondamente e felicemente turbato, qui le identificazioni abbozzate e seppellite all'istante non vanno oltre la costituzione di una spettatorialità genericamente e sterilmente disturbata. E questo è un errore grave, molto grave, ché la liberazione dello spettatore, proprio come quella di Manderlay, «è un obbligo morale».

La troupe di Dogville (demiurgo, tecnici e molti attori, fra cui Bacall, Davies, Sevigny e Ivanek) si sposta in Alabama e la festa (finalmente) comincia. L’arringa sulla Grazia schernita lascia il posto a un apologo su Libertà, Uguaglianza, Felicità. Ma è solo un’illusione ottica, uno scheletro di gesso sul pavimento, l’alibi perfetto per parlare di (e fare) altro: cinema, tanto per cambiare. Grace finisce quasi per caso sul set del film di Mam e si fa coinvolgere nella lavorazione, rivoluzionandola con il sostegno dei suoi uomini (ogni produttore cela un gangster, Lynch docet): trovata la sceneggiatura, sceglie d’ignorarla, causando svariati disastri.
Si rimescolano le carte, si ribaltano gli schemi: in Dogville la fuga di Grace inaugurava l’opera e l’arrivo dei mafiosi la chiudeva, qui avviene il contrario; a Manderlay la protagonista fa emergere segreti, bugie e veleni assortiti non adeguandosi all’ordine (pre)costituito ma imponendone uno – relativamente – nuovo. La prepotenza dell’impianto romanzesco è identica, ma il tono è sarcastico, asciutto, perfido. La Passione di Grace cede il posto al processo alle ottime intenzioni e alla cattiva coscienza di una bimba viziata e cocciuta, che accetta la sfida lanciatale dal genitore e naturalmente perde. Bryce Dallas Howard riprende il masochismo mistico della Grace kidmaniana e lo mescola a più terreni tormenti, come una capricciosa Giovanna d’Arco praticamente indistinguibile dal Padre sornione di Willem Dafoe (che di Caan ripropone solo l’abbigliamento). Il gioco di Grace & Lars [il baro gentiluomo, Dr. Hector (Direktor), è palese autoritratto] funziona meglio in versione light, e se non mancano stecche e momenti di stanca (le gaffe di Grace, le fantasie coloniali a buon mercato, la galleria fotografica finale) ci sono sequenze (l’accecante apocalisse di sabbia, la morte di Wilma) in cui la spassosa stravaganza dell’operazione si fa (in)visibile specchio di un universo-prigione in cui carcerieri e detenuti amano scambiarsi i ruoli.
Il film è dedicato al suo produttore Humbert Balsan, scomparso nel febbraio 2005.

Secondo capitolo della trilogia, secondo manipolo di bugie. Ispirato ad Happiness in Slavery di Jean Paulhan (un testo sulla ribellione nelle Barbados del 1838, comparso nel 1954 come prefazione a Histoire d’O di Pauline Réage) Manderlay è un nuovo tassello sull’animale umano, naturalmente portato al Male (da liberatore si diventa torturatore), cerebralmente immerso nelle maglie del contemporaneo. A metà fra remake di Dogville (struttura teatrale confermata senza variazioni) e suo superamento concettuale, l’opera è più smaccatamente politica della precedente: la schiavitù nera, losca invenzione del bianco, non può spezzare le proprie catene perché non possiede ali per volare, così l’esportazione di libertà e le testuali lezioni di democrazia di Grace cadono nel vuoto gnoseologico moderno. Tutto è spiegato: la metafora limpida (George W. Bush ospite d’onore in chiusura), la complessità apparente dei dialoghi sbrigliata in un piano esplicito (Le umiliazioni per noi superano ogni immaginazione, L’America non è pronta ad accogliere i negri come uguali, Siamo noi che vi abbiamo creati!, e così via), da un soggetto stimolante una trattazione sterile perché straparlata, gridata, sottovalutativa delle capacità cognitive del pubblico. La ghiaccia estetica del film, poi, mi pare ampiamente irrisolta: tornando all’essenziale per sezionare il nocciolo della questione, disadornando gli ambienti per incoronare i dialoghi, l’autore dimentica primamente il cinema non offrendo alcun fotogramma degno di nota, prigioniero di un decrepito set-scheletro che da un Querelle De Brest avrebbe molto da imparare. Convince solo il cast notevolissimo, dove Bryce Dallas Howard si fuma la Kidman di Dogville (nell’ultimo capitolo, Washington, Grace muterà ancora), Dafoe intavola l’unica sequenza riuscita del film (l’apparizione finale del padre), Lauren Bacall calpesta il suo mito per lavorare al progetto. L’ennesimo comizio castrato di Lars Von Trier, uno straccio di regista allo sbando (ancora Young Americans di Bowie in chiusura, ancora un buco d’idee), che per calcolo e malafede procura al suo cinema la stessa condanna dei neri americani: l’autosegregazione, che – proprio come nel film - solo i più idealisti possono scambiare per libertà.

Con Manderlay Von Trier sembra trovare, per la prima volta dopo anni (Idioti), il giusto equilibrio tra tutte le istanze del suo cinema, evitando di ripiegarsi sul discorso sull’autore millantatore (il film ha energie autonome per prescindere dalla questione). Manderlay ha i pregi di Dogville (la messinscena palesemente falsa che è insieme dispositivo svelato dell’agire e soluzione estetica, l’uso espressionista di una macchina a spalla che coniuga bene il suo movimento con la fissità e concentrazione spaziale del profilmico, l’ottimo complesso attoriale, che finge persino le azioni) e non ne ha i difetti: lo schematismo astuto, il vago disegno, la discutibile scrittura che ribaltava, con un “imprevisto”, di calcolo irritante, il ruolo di vittima in quello di carnefice – ribaltamento che strategicamente salvava Grace dal destino sfigato delle due precedenti eroine (?) vontrieriane -. Se le storie che racconta sono grovigli di ambiguità etica tale da mettere in crisi lo spettatore, non concedendogli appiglio morale alcuno e spiazzandolo di continuo, Von Trier in Manderlay dà finalmente, dopo due prove opache, piena e degna sostanza al suo dramma, con una brillante sceneggiatura, l’attento ritratto dei personaggi, la misurata progressione della narrazione, giocando con acume e la consueta cinica ironia (l’ossessivo – idiota?- buonismo a oltranza di Grace, quasi amelieano) con tutti i paradossi, le implicazioni e le complessità che la vicenda mena con sé (la democrazia è un bel casino). Se in Dogville l’autore usava il tema antiamericano come proclama di turno per sponsorizzare l’ennesimo (sacrosanto, si badi bene) esperimento di possibile cinema postmoderno, ma travestendolo subdolamente da drammone, questa volta, sia o meno il tema una maschera (non importa, oggi come allora), lo script c’è ed è di ben altra caratura; Manderlay , insomma, riesce a essere tutto quello che è sempre stato il cinema del danese (provocazione, libertà, sperimentazione – più o meno raggiunte -) ma senza i consueti alibi autoassolutori, senza facili scappatoie; insomma, se si vuole camuffare il proprio cinema gratuito, allora il travestimento deve funzionare: è quello che accade con questo film e che non accadeva col precedente. Il Von Trier che guarda al classico rimane (la voce off barrylyndoniana è di invadenza palesemente calcolata - in originale è quella di John Hurt -) e, vivaddio, anche il film.