Drammatico, Raiplay, Recensione, Storico

MALMKROG

Titolo OriginaleMalmkrog
NazioneRomania
Anno Produzione2020
Durata201'
Sceneggiatura
Liberamente trattoda I tre dialoghi e il racconto dell'anticristo di Vladimir Sergeevič Solov'ëv

TRAMA

Tra gli invitati alla villa dell’aristocratico Nikolai a Natale ci sono un politico, una giovane contessa e un generale con la moglie. Cenano e parlano di progresso e moralità. Man mano che la conversazione si anima, le loro differenze culturali si fanno sempre più ovvie.

 

RECENSIONI

È un corpo celeste il nuovo film di Cristi Puiu, Malmkrog, presentato e premiato nella sezione Incontri della Berlinale. Per via del suo porsi netto e sprezzante come film da festival risulta complesso pesarne meriti e demeriti, pregi e limiti (che sono presenti e che qualche critico coraggioso ha provato a districare) e trarre come risultante un giudizio ponderato. È un film difficilissimo da valutare in quanto film perché si configura più precisamente come esperienza e evento. Indubbiamente un'esperienza rara e perciò preziosa tra tanta musica leggera per ceti medi, dimenticata già mentre scorrono i titoli di coda. Appoggiato alle spalle di giganti festivalieri (in primo luogo Alexander Sokurov e Albert Serra) e guardando all'anticinema se non proprio al teatro Kammerspiel oltre che alle bombe a orologeria contro le classe dominanti assemblate da Luis Bunuel, Puiu sistema un'opera torrenziale (oltre tre ore) e logorroica, un arazzo di discussioni filosofiche - di cui osserviamo la tessitura - a proposito di temi come la morte, la religione, la Russia e l'Europa, il progresso, le strutture sociali e così via. Ambientato in una tenuta di campagna nobiliare nella Russia fine ottocentesca e quindi in un tempo thriller rovesciato che noi - ma non i personaggi - sappiamo essere prima della rivoluzione, Malmkrog è innervato di quel preciso Zeitgeist russo anche perché ha gli stessi temi dei romanzi di Dostoevskij, Tolstoi, dei racconti e delle opere teatrali di Cechov. Il filosofare scolastico dei protagonisti - ognuno portatore di una posizione emblematica, come nei dialoghi platonici - si muove per confutazioni, tesi e dialettiche, girando attorno agli oggetti con una insistenza impensabile fino a esaurirli o abbandonarli (senza mai ovviamente trovare sintesi). Lo spettatore si smarrisce nella trama sillogistica e rimane ipnotizzato, sostenuto dalle recitazioni ultranaturalistiche e da una regia altrettanto amniotica. In questo senso Malmkrog è un'esperienza: quello che è stato stroncato come difetto ossia il favorire noia, disattenzione, sonnolenza è parte integrante del piano. Addirittura, come il Roi Soleil di Serra, è un film libero dalla narrazione e dalla durata che si potrebbe quasi guardare saltando in avanti e ritrovando i dibattenti grosso modo allo stesso punto. Se non fosse che la rete stesa con tanta meticolosità perché si mimetizzi al fondale serve a confondere i pesci, far abbassare loro la guardia affinché poi siano presi di sorpresa e catturati nei momenti in cui la trappola si chiude, la rete tirata con uno strappo improvviso. Oltre tre ore di tessitura certosina servono principalmente a amplificare la gioia profanatrice e liberatoria dello squarcio.

Come nell'epocale Arca russa di Alexander Sokurov il tour de force tecnico dell'unico piano sequenza travalicava completamente l'aspetto ginnico, da Guinnes dei primati, perché quel tipo di disposizione spaziale fluida e ininterrotta aveva un senso profondo ossia evidenziare e amplificare i punti ciechi, i punti di fuga, i buchi neri della storia russa concretizzati nello labirinto continuo che è l'Hermitage; come Luis Bunuel si divertiva a imbandire articolatissime tavole per la borghesia e i suoi alleati (il clero, i militari) pregustando la distruzione, l'orgia anarchica, il massacro che avrebbe poi scagliato contro, così Malmkrog si fa in funzione dei suoi squarci che sono momenti di verità e arrivano quasi tutti a fine capitolo prima di una dissolvenza al nero. Sono poche parole incomprensibili pronunciate con sufficienza e scherno dalla servitù che suggeriscono il re nudo nei tronfi signori che si danno tanta importanza; è musica che viene da chissà dove e dice che, per quanto ricchi e potenti, non riusciranno mai a dominare il caos; è soprattutto un letterale eccidio inspiegato e probabilmente immaginato, una prefigurazione freudiana, un cupio dissolvi - allo stesso modo in cui Hollywood ha fatto crollare le Torri cento volte prima di Al Quaeda - che è prefigurazione storica del meccanismo della lotta di classe (come ne La ceremonie di Chabrol, però senza provare a dargli un contesto psico-sociologico). Oppure, alla Walter Benjamin, si tratta di semplice manifestazione neutra dell'Angelus Novus, ossia dello spirito imparziale e stolido della storia. Questi nobiluomini che si credono il sale della terra e sono convinti, con le loro chiacchiere, di spiegare il mondo non sanno di essere al tramonto né di essere un tramonto. È simbolica la figura del padrone di casa malato e costretto a letto (Ivan Il'ich?), intravisto in un paio di scene.

L'unità strettissima di tempo e luogo, teatrale anch'essa, non serve solo, come sopra, a potenziare le incongruenze logiche tra un capitolo e il sequente, a squarciare di assurdo un tessuto perfetto, bensì anche a squadernare un altrettanto simbolico ciclo diurno che, inglobando nella grana dell'immagine il variare di luce e atmosfera, si conclude con un tramonto e una notte per i personaggi. Essi hanno esplicitato nei minimi dettagli la Weltanschaung della loro classe, della loro epoca senza immaginare il destino di macerie lasciate indietro dall'angelo della storia nel suo incessante procedere. Uno strato ironico ulteriore sta nel fatto che a venire spazzato via è un gruppo sociale dalle certezze granitiche, che scambia le proprie personali gerarchie per l'ordine naturale o divino. Siano certezze teologiche o teleologiche, tutte concorrono a delineare un orizzonte progressivo di valori, custoditi per diritto divino o per meriti accademici dall'aristocrazia che si autodefinisce franco-russa e parla francese per snobismo, che certamente porteranno all'affermazione universale dei valori cristiani, europei, occidentali: le magnifiche sorti progressive. Se i personaggi possono divergere lungo i tanti assi binari disposti nella loro architettura del mondo - fede e ragione; Asia e Europa con la posizione e la storia peculiare russa a fare da catalizzatrici - tutti in fondo si trovano d'accordo nella sordità ai movimenti tellurici della storia. In questo senso l'adattamento fedelissimo dei testi I tre dialoghi e il racconto dell'anticristo scritti nel 1899 (su un crinale cronologico) dal filosofo e teologo Vladimir Sergeevič Solov'ëv si riempe di risonanze inquietanti con l'attualità sia nella lettera - pro e contro e prospettive della federazione europea, per esempio - sia soprattutto nel senso incipiente di Gotterdammerung, di trasmutazione di valori e tracollo di griglie epistemologiche. Solov'ëv fu una delle prime infuenze di Mikhail Bulgakov: il finale è dominato dall'emergere di una figura nuova, l'Anticristo. I protagonisti cercano, coerentemente di identificarlo, fedeli al metodo scientifico, in realtà esso si rivela piuttosto una premonizione, il primo momento profetico loro malgrado. L'Anticristo verrà a ribaltare tutto e fare del mondo ordinato e classista un mondo di ieri con nuovi padroni e nuove forme di oppressione. È facile sospettare che, se avessero vissuto abbastanza per arrivare al 1917, i cinque avrebbero finito i propri giorni in esilio o in un gulag.

La lentezza esasperante, perversa, amniotica della (non)azione trova il suo correlativo nello stile registico fatto di quadri immobili, teatrali e minimi movimenti di camera che cambiano la scena ma spesso ce ne accorgiamo solo a fatto compiuto. Così l'illuminazione naturale segue la scansione atmosferica, lentamente, lentissimamente finché improvvisamente ci scopriamo in penombra. La composizione del quadro, nei suoi elementi formali come in quelli cromatici, deve moltissimo a uno degli artisti più amati dal cinema (in particolare dal cinema russo): Vilhelm Hammershoi. Il pittore danese delle attese in stanze vuote, delle figure di spalle che osservano una finestra è perfetto per veicolare il sentire inconscio, inconsapevole di precarietà, deserto e indefinita attesa di un evento sconvolgente in quanto evento che scorre carsico lungo il film per emergere in occasione degli squarci. E non è un caso che il film si chiuda con i personaggi ormai chiaramente mossi come pedine di un gioco storico, senza più agency, che, all'unisono, si mettono di spalle verso il muro ad attendere l'Anticristo, come condannati in attesa del plotone d'esecuzione.

Malmkrog è un film che divide perché idiosincrasico e faticoso, perché trova nella presunzione la propria unicità, il proprio anacronismo. È un film esigente che non si concede alla fruizione superficiale che pretende sia indicato in modo didascalico dove, come guardare e cosa pensare. È un film che funziona come macchina metacinematografica, come ipertesto, come discorso. Difficile e probabilmente inutile ponderare un giudizio canonico ma abbiamo bisogno di opere con il coraggio di sfondare liturgie più che di film belli perciò si può azzardare che, dei film usciti nell'anno sui generis 2020, sarà uno dei pochi di cui ci ricorderemo e di cui continueremo a parlare.