MUBI, Recensione

MAI RARAMENTE A VOLTE SEMPRE

Titolo OriginaleNever Rarely Sometimes Always
NazioneU.S.A., U.K.
Anno Produzione2020
Durata101''
Sceneggiatura
Costumi

TRAMA

Da una piccola città della Pennsylvania a New York City: è il viaggio della diciassettenne Autumn con sua cugina Skyler verso una clinica abortista. Due notti e tre giorni per compiere una decisione, per tornare alla normalità della vita, che normale non è.

RECENSIONI

Sole, silenziose, solidali, diverse: Autumn e Skylar si muovono in un mondo privo di empatia supportandosi senza filosofie, bastandosi non senza attriti, verbalizzando l’essenziale e sintetizzando in gesti il supporto dell’una verso l’altra. La seconda, informata della gravidanza inattesa e indesiderata di Autumn, diventa sua estensione e complemento, propulsione e compagna di un viaggio che non è fuga, perché nessuno insegue, non è segreto nella misura in cui nessuno se ne interessa, ma è argomento sensibile, maneggiato dagli esperti fra moralismo e professionismo; in mezzo, il taciturno desiderio di liberarsi di un peso e la trafila che ne consegue. E che implica il passaggio dalla provincia alla grande città, dove l’obiezione di coscienza non è un ricatto privato, ma al massimo una protesta pubblica. Due ragazze in una New York senza attrattive, abbastanza grande da rimandare la procedura di un giorno per ragioni di spostamenti, eppure abbastanza piccola da incontrarvi per caso lo stesso gentilstalker liquidato su un bus al quale tributare un sì per sfinimento, abbandono e necessità.
Quella di Hittman al terzo film è una regia lucidamente immersa nella realtà intima del suo personaggio, mostrata ma non esplicitata, che compone in primi piani e dettagli un discorso dal sentimento anestetizzato, una deviazione dimessa dal quotidiano, un incidente che diventa anomalia e scopre la sua aberrazione nella schematica compilazione di un questionario: mai, raramente, a volte, sempre, opzioni avverbiali su cui si infrange la rimozione psicologica in corso d’opera di una protagonista la cui proverbiale anti-comunicatività di adolescente si svela trauma femminile.
Senza manifesti dichiaratori, con una denuncia al contempo esplicita e silenziosa, la regista newyorkese innesta nell’indie che le è caro l’accento posto dall’attualità sulla condizione femminile, trasformando così in segni i vezzi di genere -dettagli epidermici, contatti di mani e volti, sguardi, sfocature, silenzi, distanze, assenze e complicità che in Felt like love (2013), film d’esordio, estendevano il tempo sospeso dell’immaturità sessuale fino alla vacuità, e in Beach Rats (2017) si facevano racconto irrisolto, tormentato e sensuale della ricerca dell’identità di genere-. Oggi, quell’età dal fascino confuso e in divenire ha conservato la voglia di piercing, lo smalto nero, il lavoro part-time e il rientro a casa in una famiglia disfunzionale, mentre quei ratti da spiaggia, quei ragazzini acerbi e sciocchi circondati da ragazze più mature e spesso più intraprendenti sono diventati maschi molesti e superficiali, evidenziando lo slittamento della regista verso una tematizzazione non meno intimistica, ma più sociale del suo cinema indipendente, che qui appare dunque un compromesso fra il suo terreno di gioco e il suo tempo politico: così, quell’atemporalità della patina fine anni 90-primi 2000, quell’internet che è comparsa, ma non protagonista, quella mancata connessione globale, così di genere e quasi vintage, disloca anche l’attualità del discorso neofemminista, che diventa simile a un reperto, gridato in sordina. E dà da pensare su più fronti: su quello della normalizzazione storica di comportamenti oggi sempre più inaccettabili, sulla rottura di una barriera di silenzio e l’adesione, piena, parziale, goffa, polemica, perbenista, censoria, inclusiva ma selettiva di un mondo (dello spettacolo) che cerca una rivoluzione e trova un hashtag. E quei social che il film non mostra e non evoca. Anche per questo la sua riflessione, condizionata ma sentita, sensibile, è in grado di comunicare intensamente.