TRAMA
RECENSIONI
Bradley Cooper, per capirci, sarebbe il prof cazzone e senza scrupoli di Una notte da leoni, l’impasticcato di Limitless, il procione spaziale di Guardiani della galassia, e via discorrendo. Proprio lui. Pare ormai chiaro però che poi quando passa da davanti a dietro l’obiettivo diventa un inguaribile sensibile. Con Maestro in effetti firma il suo secondo lavoro alla regia, e sembra già delineare alcuni temi, come si dice, ricorrenti. Anzi, a voler essere un po’ più coraggiosi, il film appare come una sorta di remake di A Star is Born. Certo, i personaggi cambiano, le modalità di rappresentazione, forse, vengono passate al labor limae, ma la polpa rimane molto simile. A Cooper interessa una sorta di cosmogonia interiore della rockstar, intesa come espressione massima dell’animo inquieto dell’artista, capace di amare per quanto può, ma condannata, nel suo intimo, a una sorta di eterno, libero solipsismo. Di là era Jackson Maine, cantante fittizio (ma chiara summa di alcune ispirazioni musicali del regista), di qua è Leonard Bernstein, compositore e pianista, emblema plateale del binomio genio e sregolatezza. Ma di là era anche Ally, che con Jackson ingaggiava un amore tanto romantico quando disfunzionale. E così di qua è Felicia Montealegre, e la solfa (se di musica parliamo) è all’incirca la stessa.
Insomma, i paralleli si sprecherebbero, quindi concentriamoci piuttosto sulle isotopie: la musica, in prima istanza, che assurge a mito, in un certo senso ad arte totale e totalizzante. Il dramma, o anzi il drammone sentimentalone romanticone, che si estrinseca nel racconto di vite in cui al successo corrisponde l’abisso; ancora, di là mediante una storia di finzione, di qua invece attraverso la formula del biopic, genere dominante nell’età contemporanea.
E poi, la predilezione per storie “semplici”, forse – chissà che vuol dire poi – pure. Cooper è dunque, almeno per ora, un regista in un certo senso classico. Niente puzzle da risolvere, né misteri, e nemmeno a dirla tutta ardimenti nella regia stessa, il suo è un approccio che demanda la potenza evocativa del film a tre coordinate: la sceneggiatura, la forza della storia in quanto tale, l’attorialità. Una specie di sacra trimurti del cinema, per la quale la macchina da presa non è che un veicolo, e semmai conta di un po’ di morigerata post-produzione: l’utilizzo del formato 4:3 nel flashback, che copre buona parte del film, e il corrispondente bianco e nero, quest’ultimo, se ci pensiamo un secondo, vero protagonista degli Oscar 2024 (oltre a Maestro altri due candidati a miglior film usano lo stesso espediente: Oppenheimer e Povere creature!).
Chi è dunque il Bernstein di Cooper? Un pigmalione, trasformista, instabile, libertino, egoico, artista, teso fra le maglie di quella ribalta cui è stato consacrato in giovane età grazie a una fortunata esibizione alla Carnegie Hall di New York, e una vita personale che tenta grossolanamente di coniugare fra famiglia (l’amata Felicia e i figli) e avventure omoerotiche sparse qua e là lungo il suo cammino. Un’esistenza contrassegnata così da un’inconciliabile doppiezza, il cui carico pesa tutto sulle spalle della moglie, la quale interpreta il parziale sacrificio di se stessa come atto necessario allo sviluppo dell’arte del marito. Questo è quanto ci è dato vedere e pertanto sapere, fino all’epilogo, in cui un ormai vedovo Bernstein ci è mostrato in discoteca a spassarsela, per l’ennesima volta, con un suo allievo, nell’espressione massima di quello che è sempre stato, prima che l’immagine della moglie compaia come ultima inquadratura.
Ecco allora che Cooper conferma la sua visione: del Bernstein politicamente orientato (colui che ha ispirato in effetti la locuzione “radical chic”) c’è scarsa o nulla traccia, il ruolo dei figli è marginalizzato, l’essenza intera del personaggio è nel binomio musica-emozione. Non già un atto riduzionistico, quanto una scelta specifica, assai americana e assai classica (nel senso cinematografico, ancora una volta, dell’attributo), di consapevoli selezione e infiocchettamento, che non vanno giudicati in quanto tali (sarebbe come fare il processo a partire da quello che il film avremmo voluto che fosse rispetto a quello che è), bensì compresi all’interno di quella poetica che da ora in avanti (cioè con la legittimazione che ci è data dall’avere un corpus non più di uno, ma di ben due film), e salvo brusche inversioni di rotte, potremo iniziare a chiamare: cooperiana.