TRAMA
Janis e Ana diventano madri lo stesso giorno, in una clinica di Madrid…
RECENSIONI
È sempre più difficile far prescindere il discorso sul singolo film di Pedro Almodóvar da uno sguardo che comprenda la sua intera filmografia. Nello specifico: quanto deve essere stato difficile concepire (mai parola fu più idonea) questo Madres paralelas dopo un titolo come Dolor y gloria? Punto di arrivo di un discorso umano (dolore) e artistico (gloria), sua apoteosi e definizione, ma anche film precocemente testamentario? E quindi oggetto ingombrante, prima in prospettiva e poi alla luce di un esito così celebrato? Madres paralelas, come le precedenti grandi riaperture della sua filmografia - Volver e Gli amanti passeggeri - è fondato sulle vestigia del passato, è film di passaggio, è premessa a una nuova fase. Che poi sarà (immagino) solo un diverso modo di riguardare e riprocessare la propria opera, come già anticipato dal corto The Human Voice, che riportava a galla un’antica fissa del regista (La voix humaine di Cocteau), più volte evocata e persino inscenata nel suo film La legge del desiderio (rimando alla trattazione sul corto con Tilda Swinton). Anche quest’ultimo lavoro riprende un vecchio progetto dello spagnolo: lo script, a firma del regista/alter ego Mateo, appariva in Gli abbracci spezzati.
Madres paralelas culmina in un ritorno alle radici, al paese natio, agli avi. Ma, a differenza di Volver, estende la riflessione all’intera nazione che dal 2007, con la legge sulla Memoria Storica di Zapatero (perfezionata l'anno scorso), cerca anch’essa di fare i conti col proprio passato, lavorando per il riconoscimento della dignità delle vittime del franchismo e per l’esumazione delle fosse comuni. In Madres paralelas, dunque, Almodóvar piega la propria poetica alle istanze di un cinema civile, schierato, partecipe di una causa sacrosanta: così l’esame del DNA - che dissipa i dubbi sulle maternità delle due protagoniste - adombra e metaforizza il lavoro di ricerca storica che deve far luce sul passato tragico della Spagna, altra tacita madre parallela.
Rieccoci dunque nel mondo almodovariano che in questi anni abbiamo imparato essersi completamente prosciugato da ogni eccesso: le sfrenatezze della movida sono un ricordo, la scrittura si è fatta più essenziale, l’umorismo è un retrogusto che emerge più dai toni che dalle parole, le scenografie arredano un mondo riconoscibile soprattutto per le sue cromie. Quello dello spagnolo è ormai cinema alla trasparenza: immagine tersa, colori brillanti, fulminanti dettagli in macro (fotoromanzo?), racconto che rivela sulla superficie l’evoluzione psicologica dei personaggi. E musica dispensata strategicamente: l’uso distillato degli archi di Alberto Iglesias mi pare qui giungere alla sua apoteosi, nel suo seminare inquietudine (l’amplesso, le tende al vento), in quel galleggiare sospeso che fa quasi Vertigo. Ana, del resto, è una madre che visse due volte: un’altra acconciatura, un’altra vita (qui un’altra figlia), come Madeleine/Judy di Hitchcock.
Perché questa messa in scena algida, per quanto abbia silenziato le urla del primo cinema di Pedro, non per questo lo ha reso più veristico: siamo quindi nella piena irrealtà della finzione, quella di un melodramma classico, con teorema narrativo a vista, commozione del pubblico cercata e ottenuta a suon di invenzioni toccanti, enfatiche aperture di porte che si spalancano come sipari a introdurre personaggi, metadiscorsi impliciti (Teresa a teatro recita Lungo viaggio verso la notte di O'Neill, nella parte della madre inadeguata che è, attrice prima che genitrice, come la Paredes di Tacchi a spillo -), parti dolorosi in montaggio significativamente parallelo, la relazione amorosa tra Ana e Janis che sembra volta a confermare la teorica latitanza del maschile e a ingaggiare un discorso militante (una famiglia alternativa + We should all be feminists) piuttosto che rispondere a una vera esigenza narrativa. E sottigliezze evidenziate con furore letterario: Janis che lotta per la verità pubblica e che nel frattempo mente ad Ana in privato; Janis che trasmette il suo sapere ad Ana (lo sformato di patate, per tutto il resto), la prepara, senza dirlo - neanche a se stessa? - a essere madre di Cecilia.
E poi coincidenze inverosimili, come in Julieta determinate dall’arbitrio - si pensi al modo in cui Almodóvar gioca sulla facilità odierna di troncare i rapporti (il cambio di numero di cellulare è una sfida cosciente al destino) - e da fatalità che si perpetuano a mò di maledizioni (il neodeterminismo almodovariano: madri single per madri single e padri ignoti, perduti, morti, comunque invisibili - il padre di Ana è vivo, certo, ma per il pubblico è solo una voce al telefono -). E il ricorso alle attrici-vestali che dice, implicito, di un’opera complessiva: Penélope Cruz e Rossy De Palma.
È un insieme di elementi di cui lo spagnolo sembra sempre più propenso a non nascondere la ragionata alchimia, come ad apporre la firma sul film proprio attraverso la loro evidente, calcolata combinazione, il metterli sotto il vetro di una forma glaciale. Il modo in cui, per esempio, affronta il nodo storico, facendone una cornice quasi, ad aprire e chiudere il film, a riconnetterlo - simbolicamente, certo (lo dicevamo prima) - alla narrazione privata, ma anche freddamente all’ordito dello script, mi sembra dimostrarlo. Che poi è anche il modo in cui il regista ragiona sul suo percorso autoriale: se il presente è una patina che, rimossa, mostra gli anfratti profondissimi e frastagliati del passato; se riconsiderare la Storia, ripararne gli errori, è quanto necessario per affrontare il futuro, questo è quello che Pedro fa con questo film: si volta indietro, solo per essere sicuro di poter proseguire, guardando serenamente avanti.