TRAMA
Dieci anni dopo la scomparsa del figlio Iván su una spiaggia nella costa del sud-ovest della Francia, Elena vive e lavora ancora lì vicino, a Vieux-Boucau-les-Bains. Un giorno la donna vede in spiaggia un ragazzo che le ricorda fortemente il figlio scomparso e che ha l’età che Iván avrebbe oggi.
RECENSIONI
Capita di pensare a quante storie si possano ancora raccontare senza cadere nel vizio capitale (presunto) del già detto. Qualcuno ha provato a fornire una risposta, ma come prevedibile, un accordo non è stato trovato. Secondo Ronald Tobias esistono venti master plot, per Patricia Ryan si possono contare cinquantotto trame possibili, raggruppate in una serie di macrocategorie. C’è chi ha addirittura realizzato una specie di tavola periodica dello storytelling (non scherzo, esiste davvero) e chi, come Christopher Vogler, ha analizzato trame funzionali/funzionanti, deducendone un modello pressoché universale: il viaggio dell’eroe (che può naturalmente anche essere un antieroe, secondo precetti più moralistici. È solo una questione di scelte, dopotutto).
Questa premessa per dire che Madre, di Rodrigo Sorogoyen, non può essere ascritto nel novero delle storie che fanno della mera ricerca dell’originalità il loro punto forte. È tuttavia – e in fondo è il solo dato che conta – profondamente originale lo sguardo del regista spagnolo, che da questa ispirazione narrativa aveva già tratto un celebrato cortometraggio.
Innanzitutto Madre è un film senza genere, o che gioca coi generi, plasmandoli rispetto alle necessità dell’autore. Si tratta di un film drammatico, con gli stati emotivi alterati del personaggio di Elena, sottolineati dalla punteggiatura dei campi lunghi marini, dal rimbombo delle onde che si infrangono sulla battigia. Quasi una nebbia cognitiva, che rallenta la storia e i riflessi, che non consente di analizzare in modo lucido la situazione e i suoi possibili sviluppi (concreti, ma anche etici, mi verrebbe da aggiungere). Eppure si può presumere che Elena non creda che Jean sia il figlioletto che ha perso; ha bisogno di crederlo, ha bisogno di convincersi di stare credendo. Sono due approcci molto diversi: da una parte la verità, qualunque cosa significhi in generale e in questo specifico contesto, dall’altra, la rappresentazione. Jean, dal canto suo, è un adolescente lusingato dalle attenzioni, che reputa romantiche o erotiche, di una bella donna molto più adulta di lui. I due piani convergono solo nel pre-finale, ma ancora una volta le carte vengono sparigliate da Sorogoyen, il quale non si limita all’esplorazione del lutto e della sua faticosa – magari inaccessibile – esplorazione/elaborazione.
In quella sorta di ricongiungimento fittizio, che sfocia forse in uno straniante amplesso o comunque in una comunione fisica poco appropriata in un rapporto che si vorrebbe concepire come filiale, il regista spoglia la maternità dell’aura sacra e le restituisce una carnalità che può metterci a disagio, che ci costringe perlomeno a interrogarci, senza poter star comodi sul divano, a osservare la tragedia di una povera donna che ha perso il suo bambino. Sembra quasi che si rifaccia ai versi della poetessa statunitense Muriel Rukeyser, dove dice, nel componimento intitolato Mito: «Quando ho chiesto: che cos’è che cammina a quattro zampe la mattina,/ due il giorno, e tre la sera, hai risposto:/ l’Uomo. Non hai parlato della donna.”/ “Quando si dice Uomo”, disse Edipo, “sono comprese anche/le donne. Lo sanno tutti.”/Lei disse, “È quello che pensi tu.»
Elena/Giocasta si riappropria, secondo un processo che può risultare disturbante e dissacrante, se ci si attiene appunto alla narrazione della maternità sacra, della propria identità. Non attende, se non all’inizio, le mosse di Edipo e si muove verso di lui, comincia a scegliere, lo sposa, restando sull’ardita metafora. Non è un caso che invece i Laio, i padri, veri o putativi, risultino personaggi restii all’azione, in attesa, quasi succubi; ciechi, loro. Vale per Ramon, il primo compagno di cui abbiamo notizia, quello che pecca per omessa vigilanza o qualcosa di analogo – almeno questo è ciò che ci è dato sapere – come per Joseba, il nuovo compagno della protagonista, quasi un fantasma che arriva ogni volta inaspettato, non voluto (?). Vale per il padre di Jean, figura dai contorni poco definiti, sapientemente sfumati, secondo una focalizzazione emotiva, imperniata su una variazione al limite del patologico del concetto di accudimento e che rimane ancorata ai desideri materni e al loro appagamento egoistico. Chi si trova in uno stato di bisogno? A chi serve protezione e supporto? Perché su questo verte l’accudimento, secondo Bowlby.
Tuttavia Madre è anche un horror (o un thriller con venature horror), più simile, come concetto, a Babadook che al quasi omonimo – salvo per un punto esclamativo – lavoro religioso di Darren Aronofsky, Madre!, precisamente. Elena, la cui vita è stata come congelata quando suo figlio aveva sei anni, ovvero la stessa età del bambino del film di Jennifer Kent, impara a riconoscere i propri mostri interiori e, almeno in parte, a conviverci. Solo attraverso questo processo di recupero della capacità di compassione e di auto-compassione, in senso non confessionale, ma gilbertiano, c’è la possibilità di ristrutturare una sorta di sistema calmante, per usare proprio una definizione della Compassion Focused Therapy. Elena, insomma, re-impara a stare sul qui e ora. Il rimbombo si placa.
Vi è un altro elemento che riporta ai topoi dell’horror (e non solo: il gioco con il tempo, con le ellissi, è presente anche in Shakespeare, specie quando la questione verte sul dilemma fondante del who I am?). Non si tratta tanto di una costruzione cronologica di atmosfera, in particolare sulla prima, angosciosa e vorticosa telefonata con il figlio, abbandonato per un intervallo di tempo troppo lungo, su una spiaggia, quella spiaggia, dal padre. Non è neppure la dimensione temporale onirica, che riporta la madre a una sorta di caverna pulsante del dolore e della perdita; il senso di colpa e l’angoscia plasmano come un’introflessione uterina, che nega il parto, dunque la salvezza, sia al bambino che alla futura puerpera.
Vi è precisamente un buco misterioso fra la perdita – appesantita, a livello psicologico, dall’idea di un babau predatore – e la ricomparsa in scena di Elena, in un luogo foriero di presagi sinistri: dieci anni dei quali noi, come spettatori, non possediamo alcuna nozione. Cosa ne è stato del suo bambino? Che cosa ha fatto la donna nel frattempo? È del tutto innocente, del tutto colpevole o…
Mi è tornata in mente una notazione contenuta nella splendida storia del cinema a percorsi di Alberto Crespi, Short Cuts. Il cinema in 12 storie (Laterza, 2022). Parlando di Sentieri selvaggi, l’autore sottolinea come parte del fascino di quel capolavoro risieda nella sua allusività, anche temporale. Leggiamo “Texas 1868” e sappiamo che la guerra di secessione è terminata nel 1865: dove è stato Ethan Edwards (John Wayne) in quei tre anni?
In definitiva, Elena potrebbe essere (stata) una pessima madre che, in alcune fasi del suo percorso di elaborazione/redenzione/chissà, ha stimolato la nostra capacità empatica. O potrebbe essere una buona madre che non siamo riusciti a capire fino in fondo, anche quando i fantasmi abbandonano il suo appartamento e lo vediamo vuoto, o riempito di qualcos’altro, una fiammella ritrovata. La palla epistemologica torna nelle nostre mani e il regista ci illustra ciò che notava Walter Benjamin, quando sosteneva che lo spazio del quadro – un bellissimo quadro di Cézanne, nella fattispecie, ma vale altrettanto per il quadro filmico – viene verso di noi e ci mostra qualcosa di «inesplicabilmente noto».
Siamo certi di trovarci nella posizione di giudicare?