TRAMA
Ellon, Scozia. Macbeth, Barone di Glamis, valoroso e fedele generale dell’esercito del re Duncan di Scozia, ha ucciso il traditore Macdonwald a capo delle forze ribelli in una sanguinosa battaglia. Percorrendo il campo di battaglia insieme al suo compagno Banquo, Macbeth incontra tre donne che gli predicono che lui diverrà signore di Cawdor e re di Scozia, mentre Banquo sarà il capostipite di una dinastia di re (dal pressbook).
RECENSIONI
Dopo l’esordio di Snowtown, che ricostruiva gli omicidi nella piccola città australiana tra il 1992 e il 1999 (rimasti noti come Snowtown murders), l’ex scenografo teatrale Justin Kurzel inscena il testo shakespeariano. Più che alle precedenti trasposizioni cinematografiche di Macbeth, quindi, appare adeguato guardare alla pellicola del 2011 come prossima a questa, ipotizzandole come due passi dello stesso percorso. In comune con il primo film - però - non c’è la premessa che muove il racconto: la storia dello psicopatico John Bunting, e della sua amicizia con il sedicenne Jamie, non implica una sovradeterminazione tragica ma al contrario la concreta influenza dell’uomo. Prima John, omofobo e violento, gradualmente attira Jamie nelle sue spire, come testimoniato dal serpente che divora il topolino, correlativo oggettivo del loro rapporto: poi “convince” il ragazzo e ottiene la sua complicità volontaria nell’esecuzione dei delitti, attestata chiaramente dall’ultima inquadratura riservata al giovane, che mostra un volto non più combattuto e sofferente ma fissato in una nuova asciuttezza, ormai persuaso dall’educazione criminale. Una parabola sulla fascinazione del Male, dunque, sulla sua capacità di espandersi nel contesto già degradato, senza nulla di ultraterreno bensì sostituendo alla mano del fato le azioni consapevoli e feroci degli uomini.
Il filo che lega Snowtown a Macbeth è piuttosto una questione di sguardo: in entrambi i casi, il regista si applica alla costruzione del quadro visivo 'in negativo', ovvero all'estrazione dell'immagine significativa da una situazione compromessa e colpevole. In tal senso Kurzel conferma una ricerca figurativa basata principalmente sui colori della terra e del sangue: così l'uccisione di York nella vasca da bagno in Snowtown fa rima qui con l'omicidio di re Duncan pugnalato da Macbeth. Nei due film l'azione che fa esplodere la tensione latente dell'intreccio, decretandone lo sprofondamento verso la colpa, viene costruita allo stesso modo: l'atto omicida è sovraccarico, dettagliato e sanguinoso, come la tortura del soffocamento del ragazzo così i numerosi colpi inferti al sovrano, con la veste che si impregna di rosso. Il delitto è un gesto iperrealista che non fa sconti allo sguardo, costringe a vedere minuziosamente e confrontarsi con la morte a viso aperto: la macchia simbolica della colpa diventa solida e si concretizza nel sangue, che scorre eccessivo proprio perché lascerà il segno. «Ciò che è fatto non può essere disfatto».
Il regista percorre il testo all'insegna della riproduzione filologica e letterale: i dialoghi del Bardo sono ritagliati, estratti e installati su pellicola. E' proprio il rispetto scientifico della fonte che, sciogliendo la questione della resa drammaturgica, invita a concentrarsi invece sul congegno figurativo. Girato tra Scozia e Inghilterra in sette settimane, Macbeth si muove su tre linee visive principali che regolano la messinscena: la raffigurazione materica e terrigna del paesaggio, che dall'inizio in battaglia pone il presupposto del meccanismo fatale e ne innesca le conseguenze; la penombra degli interni a lume di candela, a suggerire l'avvitamento della tragedia in senso interiore e mentale; l'esplosione cromatica degli omicidi, che sancisce l'ineluttabilità delle azioni e contiene già in sé la loro condanna.
L'allestimento di Kurzel, con le varie tracce in dialogo tra loro, disegna una progressione che attraversa le curve del dramma passando per le variazioni di registro visivo: dall'inizio bellico alla profezia, dal confronto domestico al delitto, dall'incoronazione al terrore, dall'eliminazione di Banquo alla sua apparizione spettrale, precognizione della rovina di Macbeth, la non uniformità stilistica passa continuamente da un piano all'altro, ottenendo una tragedia disomogenea con più sguardi possibili applicati sullo stesso testo. Agendo nel dispositivo, il regista imprime sulla fonte letteraria timbri eminentemente cinematografici, ovvero silenzia i dialoghi e 'sospende' il flusso verbale per lasciare spazio alla costruzione del quadro: questo avviene per brevi sequenze ma consegna parentesi che superano le parole, come l'inquadratura del bambino morto con le monete sugli occhi per pagare il passaggio nell'aldilà, o i dettagli delle imperfezioni nei volti delle tre streghe che ne suggeriscono la natura non umana. In generale, Kurzel manipola eventi plausibili nell'economia tragica intrecciandoli al proprio discorso grafico: per tutti, la tradizione medievale delle strisce nere sui volti dei soldati che diviene - nell'incipit - tratto essenziale dello spartito tra l'opacità del cielo, la cortina di nebbia, il sudore dei corpi, lo stridore delle spade e l'impatto dello scontro di massa, eseguito in ralenti. Se Michael Fassbender sostiene adeguatamente lo slittamento nella follia, Marion Cotillard sfiora il sublime nel tratteggio dell'archetipo dai forti contrasti, fragile/decisa, ambiziosa/impaurita, spietatamente vitale/tragicamente morente. Minori ma decisivi sia il Banquo di Considine, sia il Duncan di Thewlis. Un Macbeth oggi, da paragonare solo a se stesso, da non sottovalutare.