TRAMA
In uno studio musicale della Chicago degli anni 20, la band di Ma Rainey aspetta l’arrivo della diva per incidere un nuovo album…
RECENSIONI
Ci sono film che trovano nella dimensione spaziale la loro principale chiave interpretativa. Curioso che accada con Ma Rainey’s Black Bottom, lavoro incentrato, almeno in apparenza, sulla forza della parola e della parola in musica.
Come Il Calapranzi di Harold Pinter, l’opera quarta di George C. Wolfe, tratta dall’omonima pièce di August Wilson, datata 1984, si muove secondo una direttrice essenzialmente verticale. Nell’atto unico del drammaturgo inglese, sono le comande di un Godot appena più concreto (che sia un Dio indifferente, il predominio del capitale o altro ancora, arduo da stabilire…) a seguire un andamento che dall’alto di una imperscrutabile volontà scende verso i reietti monosillabici, Ben e Gus. In Ma Rainey’s Black Bottom, la questione politica è scoperta, infarcita non di silenzi significativi, ma di una musica che, a dispetto delle premesse – Ma Rainey è detta la madre del blues – non si realizza durante lo scorrere del filone narrativo principale.
Non può realizzarsi.
Il blues è Godot, il blues è lo Wilson di The Dumb Waiter (il cameriere silenzioso, ma anche tardo, ovvero il titolo originale de Il calapranzi), il blues è la cantatrice calva di Ionesco, ma anche, in un certo senso, un convitato di pietra che si provoca e col quale si gioca fino alle estreme conseguenze. Evocato, atteso, imbastito, il blues è – qui – il grande incompiuto. Il tutto, come dicevo, mostrato attraverso una connotazione geometrica che palesa la preminenza, commerciale e sociale, dei bianchi rispetto alla comunità nera. Siamo nel 1927, l’anno de Il cantante di jazz, primo film sonoro – anche se il suono extramusicale riguarda un minutaggio piuttosto esiguo – della storia del cinema ed esempio di utilizzo della cosiddetta blackface. Impossibile dilungarsi qui sul significato di quella scelta, oggi inaccettabile, e tuttavia da contestualizzare e da comprendere in relazione ai trascorsi del personaggio di Jackie Rabinowitz: la tangenza tra due gradi di esclusione – Jackie infrange la tradizione di famiglia e viene pertanto ostracizzato, allontanato – che trovano l’una nell’altra una sbilenca ragione d’esistere. L’incontro, l’unione è proprio ciò che sembra mancare ad alcuni attanti – quelli meglio caratterizzati – del film di Wolfe. La band di Ma discetta di segregazione, vendetta – appagata o bramata –, di assenza di Dio, quest’ultima in una scena potente, che vede come protagonista il compianto Chadwick Boseman, molto ispirato nel ruolo del trombettista Levee. Lo fa però senza una coscienza di classe vera e propria; così le prove strumentali sono svolte in una sorta di cantina, quasi un sottoscala, posta ben più in basso rispetto al livello stradale (si possono notare, sullo sfondo, leggermente sfocate, le caviglie di chi passeggia nei paraggi). Anche il momento della registrazione stessa sommerge l’ensemble al di sotto degli impresari musicali, collocati su un soppalco che domina la stanza, che è in alto, fuori e dentro il simbolismo che una posizione di questo tipo può assumere in un contesto simile. Ed è infine emblematico il breve confronto tra l’irrequieto Leeve e il produttore che lo liquida con cinque dollari a pezzo, alienandogli così la possibilità di diventare attore della propria arte (e della propria esistenza, ancora una volta): il primo in fondo alla rampa, il secondo qualche gradino più su. Se uno sale, l’altro esegue lo stesso movimento, perché sia sempre chiaro il divario esistente. E quando Leeve sembra agognare a un equilibrio diverso, più equo, la macchina da presa ha come una vertigine, perde il fulcro della composizione. Nulla da fare: un uomo solo, un uomo mosso più dalla rabbia che dalla consapevolezza, non può sovvertire quel dannato ordine. Leeve è ingabbiato nella propria sete di rivalsa e anche il tentativo di fuga, da una porta che altri hanno sbarrato, ha il proprio esito in un cul de sac , l’ennesima cella. Sopra, sopra, sì, perché c’è sempre un sopra in questo racconto, sta un cielo muto e polveroso, foriero di ulteriore disperazione, senza risposte.
Non può sovvertire l’ordine neppure il blues, la musica che i bianchi non comprendono, sostiene Ma, col suo trucco sbaffato dal sudore e dalla pena, figura sgomenta, tragica come quella di un pierrot. Ogni volta che la melodia delle blue note sembra aver trovato la sua compiutezza, qualcosa va storto (la prima esibizione che deve essere registrata di nuovo per una pecca sonora nell’intro) o un rapporto si incrina senza possibilità di ricomporre i cocci (nella fattispecie, quello tra Leeve e Ma, che si contendono la scena e una donna).
Stanley Kubrick, nel finale del suo Orizzonti di gloria, aveva trovato nella musica un linguaggio universale in grado di unire anche chi, per lingua naturale e schieramento bellico, si trovava su fronti contrapposti. In Ma Rainey’s Black Bottom, i blue devils e tutti gli altri demoni interiori, in senso più ampio, prevalgono e soffocano ogni afflato: come nella migliore tradizione dell’assurdo, chi parla – e si parla davvero moltissimo, in questi novantatre minuti – non è compreso e non comprende a sua volta il significato profondo, spesso subliminale, di ciò che gli altri affermano. La piaga dello schiavismo, e della sua onda lunga, da un punto di vista culturale, ha inflitto sulle carni cicatrici esistenziali, che talvolta sfociano in attacchi fratricidi; l’ombra, in senso junghiano, non può essere ancora ricomposta, né a livello individuale né come parte di un inconscio collettivo.
Beffarda, più ancora che oltraggiosa, è pertanto l’esecuzione alla quale assistiamo appena prima dei titoli di coda, quando quella storia ci sembrava conclusa: un’orchestra che suona blues, composta però da soli uomini bianchi.