Commedia, Recensione

MA QUANDO ARRIVANO LE RAGAZZE?

TRAMA

Gianca e Nick sono due ventenni bolognesi che si conoscono nel 1994 a Perugia durante lo stage per giovani musicisti di Umbria Jazz. Li unisce la passione per la musica, ma l’amore per una ragazza finirà per dividerli.

RECENSIONI

Bologna, il jazz, gli incroci affettivi non sempre vincenti, il fallimento delle illusioni e un retrogusto amaro. C'è tutto il Pupi Avati pensiero nell'ultima opera del regista emiliano (pare la più autobiografica). Ed è interessante entrare in una "storia di ragazzi e di ragazze" in cui le pulsioni e il talento si trovano a fronteggiare avversari non certo facili come la quotidianità, i sogni e il destino. Così come fa piacere invischiarsi ancora una volta nelle tinte pastello tipiche di Avati, in cui qualche battuta spiritosa strappa il sorriso mentre una poco virtuosa consapevolezza si insinua nei personaggi. Anche i due protagonisti se la cavano: Paolo Briguglia ha un ruolo più ingrato rispetto a Claudio Santamaria, ma è più duttile e regala maggiori sfumature al suo personaggio. Ai consueti "garbato", "gentile", "pacato", "gradevole", che accompagnano spesso l'umanità messa in scena da Avati, si devono però aggiungere aggettivi meno qualificanti come "sciatto", "superficiale" e "televisivo", purtroppo sempre più frequenti nella filmografia recente del regista. "Sciatta", infatti, è la confezione, con un doppiaggio poco curato spesso sfasato rispetto al labiale degli attori, per non parlare della musica, elemento tutt'altro che marginale, fondamentale nella narrazione come specchio dell'emotività dei protagonisti, e invece troppe volte unita fuori sincrono alle immagini. "Superficiale", poi, è la sceneggiatura, che mette tanta carne al fuoco ma nel tirare le fila perde per strada qualche dissidio o lo risolve velocemente, dal rapporto con il padre frustrato (un bravo Johnny Dorelli), alla metafora forzata con astri e comete (con tanto di lunghe e ridondanti didascalie), fino ai crucci inspiegati della protagonista, perno della storia ma solo sfiorata nella psicologia (non è quindi tutta colpa del viso da bambolina di Vittoria Puccini se il suo personaggio non lascia traccia). E "televisivo" è l'andamento del racconto, in cui prevale l'affiancamento degli eventi sulla loro forza, aggravato da una piattezza d'insieme e da alcune scelte di regia da soap (interno con dialoghi - panoramica di Bologna - altro interno e altri dialoghi). La visceralità degli affetti, il sudore della musica, la fatica di vivere accettando i propri limiti, arrivano quindi filtrati dal tubo catodico, sempre in agguato, e da uno sguardo non certo immune dagli stereotipi. A garantire all'anima di uscire allo scoperto, o perlomeno di affacciarsi, è il riuscito tema musicale di Riz Ortolani, che riesce a dare evidenza al non detto, mettendo quindi in secondo piano omissioni e facilonerie, e a dare coesione alla vicenda. Può sembrare poco, ma nell'economia del film non lo è.

NOI TRE in (fiacchissima) versione jazz: storia dell'amicizia bisognosa di outing fra Gianca, bravo ragazzo borghese afflitto da padre asfissiante e incurabile assenza di talento, e il proletario, ribelle (fuma in un vagone non fumatori) e dotato (pun intended) Nick, MA QUANDO ARRIVANO LE RAGAZZE? ricicla stravecchie banalità sulle donne (matrone rassegnate all'avvilimento coniugale, cinguettanti idiote o maestre di blandi sadismi psicofisici) e i rapporti intergenerazionali (i giovani, anzi i ggiovani, non sanno sognare, ai vecchi invece piacerebbe ma non sanno più come si fa). Zero spessore dei personaggi, drammaturgia da fotoromanzo (parole e azioni si succedono al solo scopo di trainare la mirabile storiella fino alla morale conclusiva: in amor vince chi fugge, tutto è vanità, chi si accontenta gode), perle di oscuro splendore sparse fra i deliri della voce over ('Francesca era di Firenze ed era ritenuta una delle undici più belle ragazze di Bologna') e la malinconia suprema di troppi dialoghi (praticamente tutti quelli che coinvolgono il padre di Gianca, un bolso Dorelli). La musica: una successione d'improvvisazioni d'incongrua piattezza, più un tocco di classica (l'incipit affidato a Hummel) e la querula petulanza del brano eponimo. A fare da tappezzeria: gigantografie di cieli notturni (integrate da evocative didascalie), che richiamano, più che Kant o il melò classico, il magico mondo Harmony, e altre balsamiche invenzioni poetiche (su tutte l'auto priva di sportello, emblema di una vita che non ignora la meravigliosa vertigine della fantasia) nella cornice a dir poco deprimente di una Bologna da guida turistica di bassa lega. Attori sommamente canini (si salva solo Santamaria: Briguglia rischia d'indurre a rivalutare Accorsi, Vittoria Puccini brilla per inutilità, gli altri non meritano neppure la menzione), regia non pervenuta. E dovrei anche attribuire un voto?

La realtà riserva sempre, allo spirito polemico e insofferente del cinefilo, lezioni di relativismo. Avevamo appena lamentato l’eccessiva sudditanza di un esordiente trentenne (Saverio Costanzo) a certi modi della koinè linguistica della televisione, che ci si para dinanzi l’ultima fatica di un decoroso professionista ultrasessantenne, totalmente livellata sulle esigenze del mercato televisivo – quello delle cosiddette fiction di prime time, per intenderci, che ha come referente soggettivo la famigliola media e mediamente stordita – che ne è anche il produttore e il naturale destinatario (ed è esattamente questo uno dei mali del nostro cinema: fra i maggiori produttori due sono editori televisivi e, benché almeno uno di essi sia anche distributore cinematografico, fagocitano il cinema in una logica e in un linguaggio televisivi). Innanzitutto i nobili temi, la passione artistica non sostenuta da adeguato talento e il tradimento di un’amicizia, sono sfiorati in modo francamente sciocco, assemblando qualche luogo comune da dibattiti chez Bruno Vespa attorno a due protagonisti maschili di carta velina; quella femminile, invece, è del tutto inesistente, e si limita a spogliarsi e rivestirsi, a entrare e uscire da un letto. Dal canto suo, la sceneggiatura si compone di una somma di siparietti in stile Il bello delle donne, giustapposti gli uni agli altri in un disinteresse quasi totale per quella cosa obsoleta nel cinema italiano che è la tenuta spettacolare. Invertebrato sul piano narrativo, inerte su quello drammatico, il film di Avati delude anche nella pittura d’ambiente, solitamente apprezzata nel regista bolognese. Case di benestanti infelici ricche di libri – scarsamente frequentati, a giudicare dall’altezza dei dialoghi; sequenze che durano al massimo due minuti con un abuso snervante di primi piani e con movimenti di macchina limitati alla funzione di “microfono visivo”; personaggi minori per i quali l’appellativo di macchiette sarebbe un troppo generoso complimento.
Infine, penosi accenni di satira sociale, inficiati dalla precisa determinazione a non superare le soglie del politically correct ma nel contempo dalla loro intima e inconsapevole natura razzista (la figura del selezionatore è esemplare di queste spinte contraddittorie) o snob, vagamente ammiccanti un po’ a destra (quella di sempre, che a ogni occasione ulula O tempi, o costumi !) e un po’ a sinistra (quella, compiaciuta e salottiera, che ciancia sorridente sul divanetto della Dandini): i plebei arricchiti sono triviali e si intrattengono su terapie anticellulite, il benzinaio estroso si rivela insensibile nei confronti dell’amico alto-borghese e fragile, il conflitto generazionale è interpretato come una litania autocommiseratoria e complice dei padri e dei figli, con madri e sorelle immobili a far le belle statuine. Purtroppo, di volgare e pericoloso c’è soprattutto il qualunquismo di Avati, che crede di criticare la piattezza televisiva con un cinema di mortuaria piattezza televisiva, irride i vecchi e i nuovi ricchi senza il coraggio o la capacità di aggredire il parassitismo e la spietatezza dei primi e utilizzando lo stesso armamentario ideologico dei secondi, accusa la presunta volgarità di chi parla di tette e culi ma lo fa parlando esattamente di tette e culi; ed è particolarmente deprimente la seminaristica prudèrie, da fascia protetta, con la quale vengono mostrati mezzi seni, profili di natiche, mutandine di pizzo in dettaglio svestite da belle sventole rigorosamente in accappatoio. Non ci si può neppure rifugiare nelle prestazioni attoriali: Johhny Dorelli redivivo è talmente smunto e cane bastonato che si stenta a immaginarlo quale padre/superEgo persuasore e coartante; almeno finché non lo si accosta a Paolo Briguglia, ancor più smunto e cane bastonato nel ruolo del figlio. Della nuova arrivata Vittoria Puccini è bello tacere; Claudio Santamaria, con la sua faccia da schiaffi da Clark Gable de noantri, sarebbe invece azzeccato, ma in simile contesto è solo un’inutile marionetta. Carlo Salinari, accostando quasi cinquant’anni fa il socialismo sentimentale e imperialista, il vittimismo emotivo, l’untuosa morale piccoloborghese, i vuoti concetti e il remissivo simbolismo della poetica pascoliana alla stentorea declamazione, all’erotismo posticcio e al superficiale superomismo di D’Annunzio, giudicava il poeta romagnolo forse più corruttore del pescarese, in quanto più aderente all’ipocrita ethos della società del suo tempo. Si parva licet