TRAMA
Estate 1910, Baia de La Slack nel Nord della Francia. Delle sparizioni misteriose di persone spingono l’ispettore Machin e il suo assistente a recarsi sul luogo per cercare di indagare. In zona vive la famiglia Brufort a cui appartiene Ma Loute, un giovane che lavora come raccoglitore di cozze e, insieme al padre, come trasportatore a braccia di borghesi che vogliono raggiungere la riva opposta di una piccola laguna.
RECENSIONI
Dopo il plauso pressoché unanime ottenuto a seguito dell'esilarante miniserie televisiva P'tit Quinquin (2014), Bruno Dumont ritorna su ciò cui solo un anno prima aveva tentato di dare forma con Camille Claudel 1915 (2013), passato poco più che inosservato. Sarebbe persino giusto sostenere che questo ultimo Ma Loute è l'esatto risultato della somma algebrica tra i due film precedenti: grazie ad essa, le sofisticate ambizioni teologiche della terzultima opera continuano a venire perseguite attraverso il massivo appeal comico che l'estetica della penultima può utilmente apportare. Come Camille Claudel 1915 (di cui ritornano svariati attori), Ma Loute ha luogo alla vigilia del primo conflitto mondiale, nelle coste di quel settentrione francese che da sempre affascina Dumont con la sua desolata magnitudine. Un paio di ricche famiglie del circondario si stabiliscono nella loro usuale dimora estiva per le vacanze, mentre tutt'intorno sempre più persone spariscono misteriosamente. Ben presto emergerà (anche se non certo grazie alla goffissima coppia di detective che si occupano del caso) che esse sono vittime di una famiglia di cannibali, i poverissimi Brufort. L'effetto comico (che viene dritto da P'tit Quinquin) viene dall'accentuata deformità di quasi ogni singolo essere che si trova a stagliarsi sulla semidesertica maestà del paesaggio. Su di esso, l'occhio della cinepresa si sofferma, come sempre in Dumont, più di quanto l'economia del racconto prescriverebbe (idem sui volti, trattati infatti come un paesaggio), e con uno zelo contemplativo che non va certo per il sottile (difficile non notare l'abuso di color correction sui bianchi in postproduzione...).
Qui la faccenda si complica. Certo, da un lato la derisione è universale, e colpisce tutti. C'è però una differenza cruciale, ed è una differenza di classe (sociale): i viziatissimi altoborghesi, al limite dell'idiozia, sono derisi in quanto caricaturali; i poveri lo sono perché sono grotteschi. Pur con una certa approssimazione, è possibile affermare che mentre il grottesco sta per una deformità naturalizzata, considerata come inerente all'ordine delle cose, il caricaturale è una questione di stile. È una deformazione deliberata e intenzionale di un oggetto la cui originaria non-deformità è fuori questione, e data tanto implicitamente quanto inequivocabilmente. Per questo i ricchi personaggi violentemente caricaturati sono interpretati da attori famosi; non così i poveri, non di rado interpretati addirittura da non professionisti.
Certo, dietro l'individuazione di questa stessa differenza c'è ancora la classe: sono i ricchi a pensare, ipocritamente, che la turpitudine dei poveri non abbia origini sociali, ma sia nell'ordine naturale delle cose. Il gioco a cui gioca il film è in effetti, proprio questo: costringe lo spettatore a spostare una mal riposta illusione ideologica per poi sbattergli in faccia l'evidenza di quanto torto abbia. Lungo più di metà del film, infatti, Dumont sembra suggerirci che una mediazione pacifica tra i due mondi sia tutto sommato possibile (l'eponimo Ma Loute, primogenito dei miserevoli Brufort, si innamora ricambiato della figlia dei ricchi). Poi però lungo tutta la seconda nega recisamente la percorribilità di qualsiasi conciliazione, schiaffeggiandoci con un no dietro l'altro, vale a dire con altrettanti ribaltamenti e U-turn narrativi che, per pura virtù di accumulo, finiscono per fare esplodere qualsiasi forma di integrità del racconto. Opportunamente, uno dei personaggi a un certo punto non la smette di confondere il termine dénouement (scioglimento narrativo) con débordement (l'eccesso, lo straripare fuori dai margini).
La discontinuità, l'inaspettato, si spinge ben presto fino al miracolo. Perché certo, Dumont ha ben chiaro (e lo dice) che la religione è una fantasia dei ricchi per autogiustificare arbitrariamente il proprio privilegio (e qui si ripensa di nuovo al suo film del 2013). Non per questo, però, viene meno per lui l'effettività del trascendente. Il trascendente c'è eccome: è dovunque si insinui nella tessitura dell'essere una frattura. Per esempio la frattura tra caricaturale e grottesco. Ma ancora di più quella che si cela dietro a questa: la frattura tra le classi. Con la lucidità dei migliori marxisti, e con buona pace della sua ispirazione cattolicheggiante, Dumont ci ribadisce che il superamento utopico della divisione in classi non va cercata ricucendo gli strappi, ma esasperando la frattura che è interna a ogni classe.