TRAMA
Otto personaggi, legati dalla terapia di gruppo, si trovano ad affrontare l’improvvisa morte della psicologa che gestisce le sedute. Sette di loro decideranno di tentare una guida autogestita del gruppo.
RECENSIONI
Chissa' perche' ad ogni film di Carlo Verdone si parla sempre di "svolta matura" rispetto agli esordi, svilendo la comicita' di quel senso di "tragica realta'", interpretato con ironia piu' o meno sottile. Carlo Verdone, poi, ci ha abituati gia' da tempo ad unire una vena malinconica di fondo con i tempi leggeri della commedia e, in questo senso, "Ma che colpa abbiamo noi" non presenta davvero alcuna novita'. Come anche l'idea di imbastire un racconto corale, gia' ispiratrice nel 1988 di "Compagni di scuola", o di immergere i personaggi in un mondo di nevrosi e psicanalisi, come nel piu' riuscito "Maledetto il giorno che t'ho incontrato" del 1992. Sta di fatto che il nuovo film di Carlo Verdone si propone come una rimasticatura di cliche' e gag, alcune funzionanti, altre meno, con alla base un'idea brillante non sempre valorizzata da sceneggiatura e regia. Lo spunto del film, con i partecipanti ad una terapia di gruppo che si trovano ad assistere in diretta alla morte della loro psicologa, e' interessante e originale. Come anche il fatto di non dare per scontati i successivi passaggi narrativi che portano alla ricostituzione del gruppo in analisi. Cio' di cui si sente la mancanza e' una direzione personale da imprimere al racconto, in grado di affrancarsi dalla voglia di accontentare un po' tutti con scelte spesso scontate. A partire dai protagonisti, tutti ben caratterizzati, anche nel look, in modo da essere riconoscibili, ma al confine con la macchietta: l'insicuro vessato dal padre, la cacciatrice di uomini disillusa dalla vita, la nevrotica senza un uomo accanto, la bulimica, l'omosessuale, e cosi' via. Si percepisce il tentativo di non banalizzare le singole psicologie, ma un gruppo cosi' variegato e' gia' di per se' banale, una sorta di "Bignami" delle insicurezze che ci circondano. Gli interpreti sono a loro agio, ma prigionieri di personaggi che in qualche modo ingabbiano la loro espressivita' in atteggiamenti, mossettine, reazioni, perlopiu' codificate e quindi prevedibili. La regia non evita cadute di tono (la carrellata sui protagonisti affacciati ad un ponte, ognuno con una battuta in successione), momenti didascalici (la discussione tra padre e figlio riflessa dall'esito della gara automobilistica al computer) e sciatterie (l'incontro finale con moglie e figlia di Antonio Catania, ai limiti del filmino tra amici). Su tutto un'aria di mestizia, a partire dai funerei titoli di testa, condita da momenti spassosi (la "velina" compagna di Verdone, le fotografie scattate sul binario della ferrovia) che sembrano piu' nascere da esigenze produttive di alleggerire i toni che dal tessuto del racconto. Di tutto un po', insomma: in teoria come nella vita, in realta' come nella vita secondo un certo tipo di cinema che vuole tutto calibrato, prevedibile e consolatorio.

Un pomeriggio come tanti, un ambiente (apparentemente) tranquillo, otto persone che (s)parlano di sé e degli altri, mescolano ansie narcisistiche e sarcastiche frecciate, non si rendono conto di quello che capita a pochi centimetri di distanza. Neppure la morte sa turbare il perfetto non-corso di queste esistenze smarrite nelle proprie compiaciute, coltivate, necessarie nevrosi, magnifiche ossessioni, fragilissimi pretesti per evitare il confronto con il gusto, le aspettative, lo sguardo, la voce altrui. La vita è un balletto meccanico (il parallelismo fra pronto soccorso e ricariche telefoniche) in cui le azioni sono ripetizioni (ogni atto, seduzione, funerale, schiaffo o movimento di macchina, si presenta due volte, in un lieve e soffocante reticolo di corrispondenze), e come se non bastasse ripetizioni indirette, mediate da segreterie telefoniche e non solo (comunque implacabili), schermi e paraventi di parole e pixel, pareti nude e bolle di sapone che imprigionano anime e corpi, viaggi intrapresi allo scopo di tornare (in perfetto orario) al punto di partenza. Il film di Verdone non è una commedia più o meno drammatica, ma una tragedia (non troppo) mascherata da farsa macabra, in cui l’elemento comico nasce dall’abisso fra percezione e autoanalisi: tutti padroneggiano i meccanismi della terapia psichiatrica, ma nessuno intende servirsene per risolvere i propri problemi. Ve(n)dersi come malati permette di schivare il vero male oscuro, la felicità fuori dal sogno, bella e potenzialmente (spaventosamente) reale. Solo i membri più giovani di questa accademia di spettri e fantocci freudiani riusciranno a spezzare l’incantesimo: per (quasi) tutti gli altri, in una notte di primavera inoltrata in cui gli interni eleganti e anonimi dei primi tre quarti di film sono sostituiti da un glorioso buio en plein air, ci sarà (probabilmente) un sogno [come interpretare la dissolvenza al nero che separa la foto congelata dal rigenerante epilogo, per giunta munito degli stilemi dell’inconscio (l’aereo) derisi nell’incipit?]. A tre anni da C’Era Un Cinese In Coma Verdone fonde con mano (per lo più) felice cattiveria e tenerezza [i personaggi sono schizzati senza pietà, e l’attenzione ai dettagli meno edificanti svela l’affetto del regista nei confronti delle sue figure (dis)umane]: si ride livido, si osserva in rispettoso silenzio la prova di un cast perfetto, si resta un po’ delusi perché non tutte le situazioni sono approfondite a dovere, perché alcuni personaggi sono oscurati da altri (Verdone è attore sensibile ma anche primadonna nell’animo, e non fa nulla per nasconderlo in sede di scrittura), perché i caratteri, volutamente stilizzati e sul filo dello stereotipo, a volte s’ingolfano. Tentativo imperfetto e prezioso, frutto di un cinema che sfida sempre più apertamente le mortifere barriere del panorama italiano e conquista sempre più saldamente chi sa concedergli un filo di (meritata) attenzione.
