Drammatico

LUSSURIA

Titolo OriginaleSe, jie - Lust, caution
NazioneU.S.A./Cina/Taiwan/Hong Kong
Anno Produzione2007
Durata148'
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Costumi

TRAMA

Cina, anni ’40. Una giovane studentessa per amore entra nella Resistenza al gioco giapponese e, sempre per amore, finirà col…

RECENSIONI

Ang Lee sta, di anno in anno, di film in film, divenendo IL “regista per tutte le stagioni”, capace di girovagare, esteticamente e culturalmente, da un capo all’altro del mondo, passando dal fumetto a Jane Austen, da banchetti di gaie nozze a wuxiapian alla King Hou. E’ un regista “senza identità” (e non è necessariamente un difetto), uno dei più “completi” autori “globalizzati” del cinema recente: globalizzati nello stile (o nell’assenza di uno stile, per lui potremmo parlare finalmente di “stile internazionale”) e nel contenuto. Se, Jie, che segna il ritorno in Oriente dopo La tigre e il dragone, è l’esempio perfetto di questa capacità di soddisfare produttori e pubblico, nel caso specifico le richieste di un’anomala accoppiata di committenti: Cina e Stati Uniti. Lee riesce ad assecondare il primo imbastendo una piccola storia (la lotta dei “partigiani” cinesi contro gli occupanti giapponesi) edificante e sufficientemente “nazionalista”, ed i secondi innestando elementi da melodramma potenzialmente disperato e violento, ma abbastanza laccato da risultare vendibile sul mercato: una bella  confezione, che riveste debitamente di una patina “anestetizzante” i corpi, anche quando generosamente li mostra (molto si è scritto sulle prestazioni ginnico/sessuali della coppia di protagonisti, troppo “messe in scena” per risultare sanamente scandalose). La sceneggiatura è ben congegnata, il cast all’altezza: nulla da eccepire. L’unico difetto che si può imputare al film è di non avere difetti, o comunque di saper bene occultarli. Il che equivale a dire che Lee non rischia, naviga su acque calme, risponde e rispetta un codice non scritto senza deviazioni, neanche involontarie. Della serie: anche i buoni film possono non emozionare, o addirittura colpire meno di un’opera non riuscita. Quanto al Leone d’oro generosamente assegnatogli, il film era l’ultimo della lista dei film dignitosi visti in concorso che avrebbero potuto legittimamente aspirare ad un premio. La Cina (quale Cina?) è sempre più vicina (o lontana?).

Libro

La Cina comincia adesso a scoprire la scrittrice Zhang Ailing (1920-1995), pseudonimo di Eileen Chang, trapiantata negli Stati Uniti negli anni Cinquanta. Il racconto Lussuria (Rizzoli), esattamente 43 pagine, è stato scritto nel 1950 ma è ambientato dieci anni prima a Shangai, durante il governo di Wang Jingwei (1940); apparentemente nazionalista, questo è in realtà insediato dal Giappone, a scopo collaborazionista e per contrastare l'esecutivo naturale di Chongquing, presidente Chaing Kai-Shek. In tale momento del conflitto sino-giapponese, segnato dalla violenta invasione sistematica dell'impero (E' tempo di guerra e Shangai è rimasta isolata dal resto del mondo), avviene la storia di Mai Jiazhi: membro della resistenza patriottica, ha intrecciato un'amicizia con la signora Yi per approcciare suo marito, il signor Yi, alto funzionario del governo filo-giapponese, diventare sua amante e organizzarne l'omicidio. Ma più forte dello spionaggio è l'amore: nell'arco di una partita di majiang, che la signora Yi gioca in casa con le amiche, Jiazhi attira Yi in gioielleria, il luogo dell'attentato che lo ucciderà. Quindi il colpo di scena. Il racconto, che si serve del tavolo femminile come anomalo coro, e gli affida la funzione di aprire e chiudere gli eventi, focalizza sulla figura di Mai; al caffè Kiessling, nel momento dell'attesa, lei si abbandona al flashback interiore, un passo prima del flusso di coscienza, rievocando l'entrata nella resistenza come rinuncia a molte cose (tra cui la verginità) e graduale processo di spersonalizzazione. La donna è spogliata della propria identità e acquista vesti nuove, che però diventano presto irrinunciabili; così l'attentato, fallito anni prima, è la ragione per cui esistere e stavolta deve compiersi. Zhang, che omette l'epilogo sanguinoso, punta tutto sulla virata sentimentale e la presenta secca, bruciante, melò, nell’arco di sole due pagine: Quest'uomo mi ama, pensa all'improvviso, ed è un pensiero che le esplode in petto come un rombo assordante, e si sente persa. L'autrice infine muta focalizzazione e torna sul signor Yi, nell'inquieta chiusura che nasconde la polvere sotto il tappeto buono; tutto questo in stile piano e levigato, a tratti elegante, che colpisce a tradimento con metafore limpide ((...) Si mette ad ancheggiare col suo vitino sottile, oltrepassando la porta a vetri col fare sinuoso di un drago intento in una danza), che evoca adeguatamente facciata e sommerso, sensi astratti e materie concrete (il perno è un anello), la politica e il cuore, l'intreccio voluttuoso di entrambi. Con almeno una trovata memorabile: la sottile ambiguità del termine chang [1], una doppia valenza che si iscrive sui personaggi e rimette tutto in discussione.

Film

La comunità cinematografica internazionale ha sempre apprezzato Ang Lee, pluridecorato, reduce da una delle sue prove più controverse e riuscite ( Brokeback Mountain), ma spesso vittima strapagata della Mecca hollywoodiana ( La tigre e il dragone e Hulk, davvero inguardabili); qui il regista torna in Oriente, retrocede al secondo conflitto mondiale e adatta una scrittrice rivalutata, assecondandola in alcuni nodi, scavalcandola in certi casi, tradendola in altri ancora. Lee focalizza totalmente su Jiazhi e drammatizza il materiale di partenza: ricalcando l'unità temporale degli eventi (la partita di majiang) - salvo poi tradirla con un flashback lungo mezzo film - nel presente ricopia alla lettera la gestualità più esplicita e teatrale della donna (Apre la borsetta e tira fuori un flaconcino di profumo, nel quale è inserito un bastoncino di vetro che intinge nella boccetta per poi passarselo dietro i lobi delle orecchie) e decide altresì di tacerne i moti interiori; nel passato, al contrario, dilata oltremodo i tumulti giovanili della ragazza e da una manciata di pagine gira oltre un'ora di pellicola. Obiettivo? Un lungo ripasso di storia della Cina, da ottica minimalista ma con afflati universali, che passa dall'università alla Resistenza, dal teatro alla recita dello spionaggio, dal furore adolescenziale alla scelta del terrorismo; l'idea di Zhang Ailing si sporca di sangue con la descrizione prolungata dell'ammazzamento del cugino, e soprattutto si macchia di sperma. Sboccia la relazione Jiazhi/Yi, nel libro sempre implicita, e scivola gradualmente sul piano fisico, quindi seminale, per poi finire in abisso. Così nella brutale sequenza del primo rapporto, che piomba volutamente a centro film, cambia la direttiva narrativa: chiaro è l'obiettivo di affermare il proprio strapotere non in veste spionistica ma su un altro, temibile terreno, quello sessuale. Segue una lunga serie di copule funzionale al discorso; intrinsecamente stimolante, in teoria, ma presto stonato dalla partitura originale e paradossalmente timido. L'accoppiamento furibondo non c'entra mai con la storia: girato in fotocopia, in posture meccaniche, senza mostrare nulla (ma con l'impressione che...), questo è piuttosto l'oggetto a parte che guadagnerà i temuti cori di lamentazioni; non dai più conservatori, come sperato, bensì dagli ammiratori della coerenza stilistica e pertinenza narrativa. Il regista di Taiwan innesta poi altre modifiche minime: la descrizione estemporanea della gerarchia spionistica, che getta un cono di luce sul Sistema, un'ipotesi sentimentale alternativa per la protagonista, una diversa concatenazione finale degli eventi, infine il confronto diretto tra coniugi Yi, che costringe i ricchi in una gabbia pregiata, mentre fuori si combatte la guerra, e li inchioda ai propri tragici rimossi.

Totale

Il film di Ang Lee è l'esempio di come non allestire un'opera letteraria sul grande schermo: navigando dritto, respingendo strutture problematiche e aggirando curve pericolose ma anche, inevitabilmente, affievolendone il fascino integrale. La lettura del libro, secca ma stratificata, viene continuamente semplificata (anche allungare è semplificare) in favore dello spettatore; una regia impeccabile, una confezione luccicosa, ma mai una scelta ardita, mai uno strappo alla facciata, mai una virata nel profondo. Non è un caso, dunque, che i contenuti strategici di libro e film siano quasi all'opposto (Zhang Ailing: Bella spia, dal passato appena accennato, nel momento cruciale della sua vita, si arrende alla forza dell'Amore - Ang Lee: Bella spia, dal passato minuziosamente sviscerato, nel momento cruciale della sua vita, è soggiogata dal potere del Sesso). Attori migliori del copione: Tony Leung, con quella faccia, a tratti funziona ma sembra anche rifare la maniera di sé stesso; nulla da eccepire invece su Wei Tang, una bella scoperta, piena di certa grazia misteriosa che la asserve interamente al personaggio di carta (La fronte un po' stretta e l'attaccatura dei capelli irregolare, invece d'imbruttirla, donano un ulteriore tocco d'eleganza a un volto esagonale già grazioso). La scelta di una scrittrice alla moda; la sua versione filmica estremizzata; un costrutto narrativo irregolare, molto cool tra flashback e ritorni al presente; lo sfondo della Grande Storia; identità palesi e nascoste, misteri e doppigiochi; più sesso che amore; un colpo di scena finale. Lussuria è insomma accademia dell'Est, che vince un festival europeo realizzando l'obiettivo per cui sembra costruito. Appunto: costruito. Un leone d'oro falso.

[1] Chang significa fantasma ma anche prostituta. Un'antica leggenda cinese racconta che una tigre, divorata la sua preda, ne possegga lo spirito (chang) e lo usi come proprio schiavo per attirare nuove vittime. Chi è la tigre nel racconto? Nessuna risposta univoca: sembrerebbe il signor Yi che, uccisa Jiazhi, se ne servirà come spettro al suo servizio. Ma la donna viene appellata come puttana (chang) anche da viva e forse le cose stanno al contrario: Jiazhi è già uno spirito quando incontra il signor Yi, la preda, e suo compito è attirarlo verso la tigre. Ovvero: stavolta l'uomo si salva, ma è sempre più vicino alla morte

Il cinema mainstream ha trovato un nuovo Minghella; come se il primo non bastasse. L’ambizione all’affresco storico e alla miniatura dei caratteri riproduce soltanto l’ovvio o il luogo comune; la determinazione a intessere vaste trame romanzesche partorisce smunte storielle, fiacche di ritmo, spampanate e superficiali, inerti sul piano del dramma; colpa dell’incapacità a costruire personaggi interessanti, a raccontare senza monotonia, ad avvincere visivamente lo spettatore. Insomma, tutti i difetti già in varia misura riscontrati nelle regie di Lee, anche in quelle più riuscite, poi molto evidenti nel mediocre e pompatissimo Brokeback Mountain – disgrazie del politically correct – e ora condotti alla loro apoteosi, se così si può dire. Una prima parte di grossolana pesantezza, in cui il dato che dovrebbe emergere è il goffo velleitarismo politico dei giovani protagonisti, mentre ciò che emerge è la loro inconsistenza di personaggi; quando la fabula prende quota – a fatica – ecco nuove assurdità a zavorrarla; la protagonista è una marionetta tanto ridicola nel lanciare torbidi sguardi seduttori quanto improbabile nel pronunciare le ridicole battute cui è obbligata: “mi hai portata qui perché mi consideri la tua puttana?” è frase degna del Tinto Brass di Senso ’45; solo che nel film dell’italiano era percepibile l’intento satirico sul personaggio, il quale è invece preso terribilmente sul serio da Lee; e dunque, seriosità per seriosità, si potrebbe dire che i nostri eroi non si sarebbero trovati a essere fucilati per ordine del tiranno (sessualmente sazio e pronto a nuove crudeltà) se l’eroina non avesse fatto la difficile con l’innamorato, celandogli ciò che in seguito spalancherà al sadico potente. La Storia vista dal buco della serratura comporta certi rischi, quando non si possiede l’estro di elevare il privato a raggio prismatico d’una tragedia collettiva. E infatti: i capi della Resistenza sono insulsi e isterici, gli sgherri a difesa del tiranno sentimentali e sciocchi (e dunque risulta incredibile la loro efficienza), le scene di sesso – in se stesse piuttosto riuscite nel loro brutale naturalismo – galleggianti come sono nel nulla psicologico dei personaggi sortiscono un effetto modesto (per un esempio a contrario, si pensi alla forza dirompente degli incontri erotici in Ultimo Tango, derivante non tanto da ciò che essi mostravano quanto da ciò che li precedeva e li accompagnava, collocandoli al culmine espressivo di un lucido scandaglio introspettivo). Minestrone privo di sostanza ma indigesto, speziato ma insipido; che si vuole di più?