TRAMA
Un professore universitario di Diritto, un quarantenne affascinante, intelligente, ironico, socialmente e professionalmente affermato, vive un’esistenza al riparo dalle intemperie della realtà. Ma qualcuno lo segue…
RECENSIONI
Emidio Greco, regista atipico nel panorama del nostro cinema (fino al 2002 aveva la media di un lungometraggio a decennio), torna sugli schermi con quest’opera, da lui scritta e diretta, a trentatré anni dal debutto (il bellissimo L’invenzione di Morel) e appena (è il caso di dirlo) cinque da Il consiglio d’Egitto. L’Uomo Privato siede sul divano del suo tronfio salotto, sugge la sigaretta, quasi ibernato in una fissità hopperiana: ha tagliato fuori dal suo mondo la realtà, sta difendendo la sua vita con le unghie e con i denti dalle interferenze degli altri, dalla loro volgarità e i loro problemi. Egli raccoglie dall’esterno quello che basta a fargli ottenere soddisfazione, senza la controindicazione di un legame, di un vincolo, di una qualsivoglia dipendenza, fosse sentimentale, sessuale, economica, culturale. L’Uomo Privato ha usato i privilegi della sua classe (un padre professore universitario come lui, ricco e rinchiuso, alla stregua del figlio, in un eremo dorato) per preservarsi dai mali del mondo, un mondo al quale oppone il suo fermo, inincrinabile rifiuto, un mondo che è fatuo o rapace, morbosamente curioso o semplicemente succube del suo fascino altero. Ma un giovane lo pedina, lo studia, ne è evidentemente ossessionato. Il suicidio del pedinatore fa saltare in aria le barricate: l’Uomo Privato si trova di fronte alla sua vita, condensata in un cd-rom, e quello che vede non gli piace per niente, accorgendosi per la prima volta della siderale distanza che lo separa dagli altri. Nella Villa della Regina, immersa nell’esclusività altoborghese della collina torinese, si celebra un rito di Pochi (pare una variazione buonista di quello kubrickiano di Eyes wide shut) che fingono di interessarsi di Tutti; è l’ulteriore esperienza, dopo una autoimposta immersione nel mondo notturno dei suoi studenti, che serve a vincere definitivamente le sue resistenze. Il salotto della sua abitazione non è più il provvidenziale riparo di un tempo, cambiarne l’illuminazione non lo fa apparire più rassicurante di quel che è. Qualcosa è cambiato per l’Uomo Privato: la realtà forse (lo) ha vinto.
Affascinante nei suoi presupposti, interessante anche nello sviluppo (il presente: una donna abbandonata senza apparente motivo; il passato: una donna che testimonia di un cambiamento senza rendercene le ragioni), con accorti contrappunti costituiti da incontri più o meno cruciali, egualmente volti a restituirci una sfumatura del personaggio e del suo percorso interiore, il film, che conferma i toni raggelati che sono la cifra dell’autore, zoppica nello svolgimento dei nodi e nell’esposizione narrativa, benché la scelta del regista, determinato nella rischiosa resa della vacuità degli ambienti attraverso un vacuo registro, sia condotta coerentemente dall’inizio alla fine. I dialoghi, studiatamente diretti a dare la misura del vuoto e del disinteresse dell’Uomo Privato per le situazioni che lo circondano, dicono (giustamente) nulla ma giocano su questo nulla con un’insistenza compiaciuta che sottrae efficacia alla messinscena; le situazioni descrivono fin troppo puntualmente (e quindi scontatamente) la scelta esistenziale del protagonista (le lezioni di diritto sono specchi didascalici puntati sulle sue motivazioni interiori), la scena onirica è pedante sottolineatura, nota stonata su una partitura fino a quel punto correttamente veristica. Non aiutano le interpretazioni che, su una sceneggiatura di artificiosa benché misurata effettistica, pericolosamente (benché coscientemente) in bilico sul filo del ridicolo, dovrebbero fornire un appoggio decisivo ma che richiederebbero, di rimando, attori di ben altra caratura; due per tutti: Vanessa Gravina, giornalista in carriera, sciorina il suo bollettino mondano, azzeccato nella sostanza e nella forma, con un ventaglio sconclusionato di toni di rara cagneria; la disperazione di Myriam Catania, tutta strilletti e isterismi di maniera, non ci convince neanche per un istante. Salva la baracca una Mariangela D’Abbraccio che dice la vanità del suo personaggio con poche, azzeccate espressioni e la sciccheria vecchio stampo della Spaack, evidentemente a suo agio in una parte che sembra le sia stata cucita addosso. Tommaso Ragno traduce facilmente il gelo del protagonista con una fissità da fotoromanzo a suo modo seducente.