Drammatico, Recensione

L’UOMO NELL’OMBRA

TRAMA

Un giovane romanziere viene assunto da una casa editrice per riscrivere l’ « autobiografia » dell’ex primo ministro inglese.

RECENSIONI

Adam Lang è in esilio su un’isola americana, come Napoleone a Sant’Elena. Egli è moralmente responsabile di aver asservito il suo paese alle logiche dell’Impero americano: alle multinazionali delle armi, alla pratica della tortura, alla giustizia sommaria in nome della lotta al terrorismo, alla CIA. Uno spettro senza identità personale è incaricato di “ripulire” il suo passato, trasformando un’anonima biografia in un novello centone churchilliano. Ma la reinvenzione del passato di un uomo ancora inscritto nel presente modificherà il ruolo e le funzioni dello scrittore, che diverrà prima uno spin doctor complice, poi un investigatore indipendente vicario del narratore.

Dopo il corretto e accademico Oliver Twist, Roman Polanski ritorna nella perfida Albione adattando un romanzo di Robert Harris, The Ghost. Tra Hitchcock (unità di luogo quasi sempre rispettata, gestione magistrale del flusso delle informazioni diegetiche) e qualche insospettabile omaggio (le escursioni sull’isola evocano in maniera impressionante i paesaggi lunari dell’incipit del sommo A Matter of Life and Death di M. Powell e E. Pressburger, che non a caso ruota attorno al plurisecolare odio/amore tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna…), Roman Polaski firma una delle sue opere più compatte e compiute. The Ghost Writer ha una costruzione narrativa impeccabile, in grado di dispiegare un crescendo etico ed emotivo ricco di finezze di tocco e di situazioni che ricordano le opere migliori dell’autore di Repulsion : una teoria di elementi o azioni ritornanti e grottesche (come la battaglia dell’addetto alle pulizie contro le foglie al vento); una villa lontana dal mondo, cristallizzazione di una modernità malata e psicotica che ricorda gli approdi di passati “détours” (Cul de sac, Che ?, La morte e la fanciulla). Una forma classica esemplare con la quale Polanski, dopo alcuni “ripiegamenti” nel passato storico o nel fantastico, torna al presente segnando la sua personale vendetta simbolica: l’arte del racconto diviene così la più potente delle armi di distruzione (di massa) dell’immaginario politico.

Attraverso il suo scrittore fantasma e senza nome, Polanski riscrive la vita di un uomo politico veicolando una plausibile verità. Una riscrittura che rovescia la manipolazione o la sublimazione che di solito le biografie agiografiche attuano. Qui, la « messa in romanzo » (che è egualmente una mise en abyme del sistema narrativo) serve a disvelare le origini degli orrori e degli errori, a rintracciare le scaturigini del male. Come la sua ombra diegetica, il narratore fruga nei cassetti del potere saturando i vuoti di senso (e giustificando le ragioni del dissenso) della nostra storia più recente, scavando fino a immaginare l’inimmaginabile o a dire l’indicibile: un’invenzione finzionale incredibilmente plausibile e destabilizzante, sebbene già circolante nei siti e nei testi di controinformazione, che trae la sua veridicità da misteriose e non spiegabili lacune, come il suicidio dell’esperto nucleare del governo Blair David Kelly. In questo straordinario gioco di rispecchiamenti (il narratore è il suo scrittore fantasma), di riconoscimenti (Adam Lang è Tony Blair) dalle venature tragiche (Ruth Lang ha la statura di una Lady Macbeth), impastato di sottile e tragica ironia, Polanski ritrova le ragioni del suo fare artistico e dell’agire poietico in generale: un grido di disperato amore per la narrazione e l’affabulazione cinematografica. Un amore che sopravviverà agli anatemi lanciati da un Potere corrotto e corruttore. Di ogni ordine e grado.

Quando reimpaginare la Storia significa dire la verità sulla Storia. Se la letteratura complice del Sistema codifica (e camuffa) la realtà, è il cinema a decriptarla. Brividi. Capolavoro.

Written on the wind

Una nave traghetto si avvicina nella bruma serale a un’isola continuamente sferzata dal vento e soffocata da un cielo basso e plumbeo. In questo luogo geografico isolato e ostile, sabbioso e insabbiante, un uomo si mette ad investigare su una morte che lo riguarda da vicino, sempre più intrappolato in quella che è un’allucinazione personale e collettiva, seguendo un percorso apparentemente individuale ma che altri hanno già tracciato per lui. L’uomo nell’ombra, per molti versi, è lo Shutter Island di Polanski.
A differenza del collega americano, però, Polanski decide di disseccare la materia narrativa e stilizzare la messa in scena fino a farne affiorare nervature più nascoste. Il thriller politico, un po’ ovvio nei suoi dichiarati rimandi all’attualità e nel meccanismo di svelamento delle sottotrame del Potere (un paio di googlate per venire a capo di un complesso affare di Stato), viene così quasi del tutto asservito a una mirabile gestione della suspense, nutrita principalmente di attese, assenze e spazi silenziosi (non necessariamente chiusi, basti vedere l’efficacia delle scene sulla spiaggia e sullo spiazzale deserto del molo). La lezione dell’Hitchcock spionistico, assorbita da tempo nel cinema polanskiano (non solo in Frantic ma anche nella declinazione luciferina del sottostimato La nona porta) si fonde con ambiguità langhiane e ansie liberal pollackiane, senza sottolineature o ridondanze, trovando una sintesi scenica nella notevole invenzione della casa-bunker del Primo Ministro inglese, perfido ed elegante incastro hi-tech di ampie vetrate e blocchi di cemento armato che guarda all’oceano senza trovarvi un orizzonte liberatorio. La trasparenza è un trompe-l’œil, una falsa promessa blindata, offuscata da un maltempo reale e metaforico, controllata da mille occhi esterni e interni. Ed è soprattutto in questo spazio che Polanski gioca le sue carte migliori incrociando gli umori del thriller politico con quelli di una raggelata sophisticated comedy (o, se si preferisce, di un sarcastico melodramma gotico): i rapporti di forza tra uomini e donne, manipolatori e manipolati, seduttori e sedotti sono all’insegna dell’incertezza, circondati da tele violentemente astratte alle pareti e da quell’elemento acquatico così presente nell’intera filmografia del regista. Geometrie confuse, inquietudine liquida.
Al di fuori della villa sull’Atlantico, il genere riesce a imporre con più linearità le sue leggi che Polanski rispetta costruendo con consumato mestiere un’atmosfera di spaesamento e paranoia, elementi comunque tipici della sua poetica. Tra le righe, ma non troppo, c’è l’urlo muto dell’intellettuale, sia pur in questo caso di piccola taglia, che si dibatte nella propria impotenza e la cui efficacia d’azione è già compromessa in partenza: la sua natura di “ghost writer”, complice in qualche modo del sistema che imbelletta di bugie vendibili, priva il protagonista per tutta la durata del film di un nome e di un’identità. La denuncia della verità è difficoltosa ed anonima, chi indica la strada dello scioglimento dell’enigma è, bizzarro e inquietante dettaglio, la voce metallica e senza corpo di un GPS. Impeccabile esercizio di stile dunque, maniera di spessore, come Scorsese, meglio di Scorsese. Però di fronte al plauso generale di fronte a un “ritrovato Polanski” chi scrive non può nascondere un lieve disappunto, avendo trovato più eversiva e tagliente l’“accademia” del precedente Oliver Twist, in cui Legge e Potere venivano deformate in satiriche caricature alla Daumier e il vittorianesimo dickensiano veniva scremato di ogni sentimentalismo, restituito nel suo cuore nero e iniettato di orrore sociale e autobiografico. Anche lì Polanski al cento per cento.
Di beffarda sapienza ad ogni modo il finale: biglietti rivelatori passati di mano in mano e non letti, fogli sparpagliati per strada che come le foglie raccattate nel vento di una sequenza precedente significano la fatica improba di uno sforzo forse inutile. Sulla parete di un edificio giganteggia in un manifesto, controcampo ammiccante di un crimine fuori scena, la “statura” morale del politico. L’ennesimo trompe-l’œil.

Nessuno, come Polanski, sarebbe riuscito a ricamare su di un racconto (anche) banale una ragnatela altrettanto magistrale di tensione, attese, indizi misteriosi, dettagli rivelatori. Tutto sta, in gran parte, nel modo in cui disegna (e dirige) i personaggi. Basterebbe la prima scena ambientata dall’editore, per comprendere come funziona, a meraviglia, il suo cinema: poche battute, una manciata di personaggi, eppure dietro di loro si staglia un intero, significativo sistema di valori. Il talento dell’autore sta nel riuscire a rendere il personaggio contemporaneamente tragico e farsesco, mentre (o perché) si fa portavoce di (altro) senso. L’opera precedente che richiama di più, nel passo hitchcockiano, è Frantic ma, nel frattempo, la sua vita privata è stata sconvolta dalla mano lunga della giustizia statunitense che, dopo averlo condannato quarant’anni prima per molestie ad una minorenne, è riuscita a farlo recludere (ha montato il film dalla prigione svizzera) e ad esigerne gli arresti domiciliari: l’autore, quindi, fa in modo che lo “scandaloso” plot del romanziere Robert Harris (ex-giornalista della BBC) riguardi anche la sua vicenda, oltre che quella del Primo Ministro inglese Tony Blair, di cui il personaggio interpretato da Pierce Brosnan è un’evidente emanazione (caso ha voluto che, mentre usciva il film, Blair fosse veramente sotto accusa). Polanski, cioè, dipinge con feroce (tragico) sarcasmo l’esercito di mass media e politici opportunisti che si avventa sulla preda da sbranare e, alla fine, la parte del diavolo da Rosemary's Baby la fanno gli Stati Uniti.