TRAMA
Cecilia sfugge alla relazione con il violento Adrian. In seguito alla rottura, lui si suicida, lei comincia una nuova vita. O almeno, ci prova: una serie di eventi inquietanti la porta a convincersi che Adrian abbia trovato il modo di diventare invisibile per perseguitarla ancora e ancora, indisturbato.
RECENSIONI
L'obiettivo è manifesto, a partire da quei titoli di testa che si disegnano sui contorni inquieti delle onde infrante, dentro una notte immobile, in lontananza il profilo di un castello solitario su una scogliera: la paura, subito protagonista, l'inquietudine sottocutanea, a formare una sostanza atmosferica e incorniciare un incipit da fiaba distorta, incrudelita nella realtà. Durante i primi magistrali, serrati dieci minuti Cecilia, la nostra principessa dai capelli d'oro murata viva, droga il principe, diserta il talamo, sventa le trappole del maniero (un villone iper-tecnologico dai grandi occhi/vetrate, proprio come quelle delle case/celle di Revenge di Coralie Fargeat e Swallow di Carlo Mirabella Davis), sfreccia via attraverso il bosco e viene soccorsa appena in tempo dalla sorella. Lui, Adrian, irrompe da dietro il finestrino all'improvviso, è un'ombra invasata, un corpo che dura pochi violentissimi istanti, ma che era già spettro, ancora prima di "morire", ancora prima di mostrarsi a noi, quale nitida percezione di minaccia, nella camera nera in fondo al corridoio, nelle luci intimidatorie, nel silenzio ostile della casa. Adrian è un'onnipresenza vigilante, un'invasione impercettibile sempre in atto, un invisibile predatorio tendente a una continua irruzione: quando si scaglia sul finestrino dell'auto lo rompe, tenta di afferrare Cecilia, infine viene seminato, ma il suo sangue rimane addosso alla donna, come a rimanerle addosso e intorno saranno le tracce della sua assenza presente lungo il resto del film di Leigh Whannell, che è un home invasion (home come luogo fisico di familiarità, protezione, domesticità ma soprattutto come spazio vitale, campo d'intimità, rifugio per l'anima) e un body horror: il corpo - segnato dal trauma, spiato, assediato, violato, malmenato - di Cecilia è infatti il luogo su cui Adrian ingaggia un graduale, programmatico esercizio di massacro (si può pure parlare, sul piano psicologico, di possession movie).
L'uomo invisibile è un racconto di infiltrazioni, tra fessure anche cinefile, capovolte: Adrian è un primo e unico marito, che non permette una vita a Cecilia, la quale potrà riappropriarsene solo ricreando fittiziamente il ruolo prescritto per lei dallo sguardo-padrone, "registico", perché l'ex dirige coercitivamente la sua vita, le sue azioni, predispone il suo futuro come una storia inevitabile, che Cecilia fingerà di metter in scena vestita da dark lady in nero, come ribaltando un codice visivo classico per salvarsi da un ruolo eteroimposto. Anche la repulsione polanskiana è riscritta, allargata all'intero movimento del mondo come un'eterna minaccia, un avversario sempre vigile. Mentre Whannell cala noi "testimoni" in un esemplare stato d'immedesimazione: vediamo con Cecilia, in un sovra-sguardo, la persistenza dell'oppressione nella cecità altrui, nel vuoto apparente e nello sguardo che le e ci viene restituito, di dubbio, di accondiscendenza, di dileggio, di in-credulità. Sono le due forme - altrettanto onnipresenti, altrettanto oppressive - di male gaze: quella di Adrian, che ordina, controlla, domina, punisce, e quella di tutti gli altri, che tacciono, ignorano, non vedono e non credono. Anche per questo forse lo strappo più scioccante, il momento più tragico, è l'uccisione della sorella Emily, in un contesto di calma apparente e soprattutto di ascolto, di confronto: la voce di Cecilia viene tagliata come la gola di Emily, la verità in una dimensione di connessione femminile (che sarebbe poi il senso del vituperato #MeToo) viene bruscamente negata, e reciso il senso di sicurezza e di libertà del luogo pubblico, della casa, del fuori e del dentro. Del sé: Adrian «si è preso tutto». Non ha neppure bisogno di flashback, di rimembranze visive o verbali: tutto quello che sappiamo di lui è tutto quello che sentiamo con Cecilia, attraverso il fenomenale corpo attoriale di Elisabeth Moss che, ancella vendicatrice in replica imperativa, vessata e resiliente, ormai parla simbolicamente da sé, è segno immediato, manifesto dilaniato e furente.
Quando infine Adrian torna corpo, divenendolo per la prima volta agli occhi degli spettatori, all'opera è una violenza di tipo differente, una messinscena, una performance di falsa remissività che dovrebbe fungere da reset, rimettere in circolo il sopruso senza soluzione di continuità, e si sospende solo in un sussurro che promette il fine pena mai, l'eterno presente tossico da cui però Cecilia riesce a sfilarsi in via definitiva: è a questo punto che risuona quasi come una cautionary tale, L'uomo invisibile, chiudendosi su una serena occhiata in camera, Cecilia che esce a riveder le stelle, sconfitto il drago. Per nulla nascostamente il film si pronuncia come metafora dello stalking, delle donne abusate e condannate due volte, dai propri aguzzini e dalle innumerevoli denunce che si perdono sistematicamente in un vuoto colpevole; ma qui il mostro dai mille occhi (personificazione, anche, della paranoia da videosorveglianza) si annienta sfoderando un twist, un escamotage cinematografico esorcizzante con un alone da cinecomix (la Cecilia del finale pare quasi un'Eva Kant, una nuova giustiziera mascherata...). È questa la sezione davvero soprannaturale di L'uomo invisibile, il suo scarto fiabesco, con la resa dei conti nella tana dell'orco, la maledizione spezzata in elegante abito da sera: è il momento in cui torniamo a sapere che è tutto un film, e che mentre la parabola di Cecilia si socchiude su una catarsi revanscista, su un happy ending dopo il calvario, là fuori, cioè qui fuori, qui dove Cecilia rivolge lo sguardo di cui si è riappropriata, la notte continua, e così la lotta, contro i tanti Adrian da imparare a riconoscere e per le tante Cecilia a cui, una volta per tutte, si deve imparare a credere.