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TRAMA
Maloin lavora come manovratore in una stazione ferroviaria sul mare. Una notte, mentre è di turno, assiste alla lite fra due uomini che finisce con un omicidio e con la fuga dell’assassino. Sceso a recuperare la valigia dell’uomo ucciso, Maloin scopre che è piena di denaro e si trova così coinvolto suo malgrado in un caso scottante che lo costringerà a cercare una via di salvezza, districandosi fra le indagini della polizia, le ricerche della refurtiva da parte dell’assassino e i difficili rapporti con la moglie e la figlia adolescente. (dal catalogo del 25º Torino Film Festival)
RECENSIONI
135 minuti, una trentina di inquadrature, macchina mobile, eventi come asintoti verso cui è possibile unicamente tendere, tempo filmico dilatato alla realtà, se non oltre. Davanti alla macchina da presa un uomo, davanti ai suoi occhi lantefatto di un romanzo di Simenon di cui, da lì a poco, diverrà protagonista. Lo sguardo- quello della mdp, il nostro- ignora, guardando difficilmente vede, più frequentemente si perde, alla ricerca di suoni e parole di cui confonde lorigine, soffermandosi su grotteschi dettagli, ritagliando fuorvianti corridoi di spazio, nel vano tentativo di carpire il senso, nello sforzo di ricostruire lavvenuto, di comprendere il presente: la focalizzazione, in The man from London è implacabilmente interna e il personaggio a cui appartiene è tanto tangibile quanto naturalmente estraneo allintorno: la mdp, ovviamente, lo sguardo, il nostro. Vivo, disorientato. Esterno, sempre difettoso. Vergine dalla presunzione di incarnarsi, la mdp di Bela Tarr gioca però con le distanze, a tratti si fa pudicamente compassionevole, quanto è permesso esserlo a chi guarda ma non vede oltre, a chi è a conoscenza di (pochi) fatti e solo dalla superficie dalla realtà può dedurne il mistero, che appartenga ai moti dello spirito o ai complotti del raziocinio fa poca differenza. Aliena dunque al rappresentato, la mdp lo è anche rispetto a Maloin, personaggio alien(at)o a sua volta: in questo senso A londoni férfi è, cinema umanista, per condivisione del medesimo sentire del protagonista. Ladesione per lo più indiretta, per omologa distanza dalla realtà, è squarciata da attimi di pura compartecipazione, in cui il geometrico rigore imbastito da Tarr cede allinstabilità vibrante di un carrello, in cui il freddo bianco e nero sfocia nellassolutezza di una luce accecante o di un buio soffocante, nei momenti in cui il suono anticipa la diegesi, il battere di un cuore viene esplicitato e, come un metronomo, si sovrappone poi nella mente alla violenta cadenza di un coltello sul tagliere: è qui, nelle discontinuità con cui questo cinema - rigorosamente disposto per guardare ma non vedere, per essere distante- cristallizza in suono e immagine il (poco) che percepisce oltre il velo della realtà, è qui, in queste increspature, che si attiva la comprensione per linferno tutto interiore del personaggio, che allocchio e allorecchio sono concessi spiragli per accedere ad una profondità irrisolta, comunque inattingibile. In un cinema pensato come puro esercizio etico dello sguardo la difformità stilistica diviene ulteriore segnale di umanesimo, coincide con un impeto empatico di struggente, a forza inadeguata, intensità. La maniera (si escluda ogni senso deteriore del termine) di Tarr prima che stilistica è, innanzitutto, morale: la forma è, sempre, etica.
In memoria di Humbert Balsan, produttore, morto suicida, figura a cui è ispirato Il padre dei miei figli di Mia Hansen-Love.