TRAMA
Una ragazza, rapita quindici anni prima e tenuta in un labirinto, è interrogata in ospedale da un profiler. L’investigatore privato Bruno Genko vuole scoprire chi è stato il suo aguzzino che, secondo testimonianze, indossa una maschera da coniglio.
RECENSIONI
Il film è tratto dal nono romanzo di Donato Carrisi, dato alle stampe lo stesso anno del suo esordio cinematografico La Ragazza nella Nebbia, di cui ripropone preponderanza dell’immagine, precisi riferimenti estetici, colpi di scena lambiccati e labirinti narrativi. Figurativamente si rifà ai thriller di Dario Argento imbevuti di atmosfere oniriche, ambienti stravaganti in rosso, soggettive e scivolosi trucchi d’esposizione. Drammaturgicamente mette in parallelo due film distinti che, per coup de théatre finale, restano separati: il primo indaga nella mente, il secondo, in forma di noir d’antan, va sul campo. Il fallimento dell’alchimia non è figlio di svogliatezza e mancanza di coraggio: l’oggetto è inconsueto perché accumula e deborda, fra killer con testa di coniglio (Alice nel Paese delle Meraviglie, non Donnie Darko, dice Carrisi), stanze ‘impossibili’ (l’Ufficio Persone Scomparse) e un sacrestano uscito dagli incubi di Pupi Avati. Nell’eccedenza, però, sbucano ammiccamenti sensazionalistici poi sconfessati (il coniglio ‘aspira’ la vittima nel furgone come avesse dei poteri; l’afono riferisce del sovrumano ma è solo una maschera; la storpia ha movimenti innaturali e promette l’incontro con Bunny che è solo un fumetto), un commento sonoro che sottolinea l’ovvio, l’impropria scelta di Valentina Bellè in una parte da grande attrice, le incontrollate svolte identitarie depalmiane (voglia/non voglia) e il film alla Saw con Dustin Hoffman che, più plateale e insensato, andava soppresso in favore del noir grottesco, arcano e fumettistico con Tony Servillo, fra finti tramonti di fuoco e tema del malato di cuore in redenzione. Anche sistemando l’architettura del labirinto per esaltare la bontà di alcune stanze, però, permarrebbe una narrazione speculare che non sorprende come le blasfemie del fumetto ‘Bunny’. La riuscita aria orrifica non si sedimenta nel sogno e nei gironi danteschi perché la surrealtà è orfana di un’idea compiuta di ‘mondo parallelo’, soffocata da spiegazioni razionali che, applicate all’eccentricità, ottengono effetti implausibili.

Benvenuti nei paradisi artificiali del metabrutto. Al suo secondo film, Donato Carrisi inscena un suicidio spettacolare, uno sgargiante e funambolico esercizio di autodistruzione. Come non volergli bene? Attenzione: qui non si tratta di autolesionismo involontario. Se così fosse, L’uomo del labirinto andrebbe rubricato alla cospicua e insignificante voce “film sbagliato”. E, a dirla tutta, non si tratta neanche di pastiche post(post)moderno in cui il citazionismo è impregnato di derisorio cinismo. Qui siamo a un livello ulteriore e superiore, un livello in cui si enuncia con grottesca serietà il dogma dell’inaffidabile. Non basta più la formula “Nulla, in questo gioco, è come sembra”, perché in questo dedalo narrativo è l’annullamento totale di qualsiasi principio di certezza a tenere banco. Qui il meccanismo sovrano è quello dell’autofagia, dell’autocannibalismo: viene in mente l’uroboro, ovviamente, il serpente che si morde la coda formando un cerchio senza inizio né fine.
Già, perché L’uomo del labirinto, piaccia o non piaccia, fa della propria inconcludenza un elemento di gloria e invulnerabilità: la bruttezza è deliberatamente ostentata come un’insegna nobiliare e l’artificiosità proclamata come verità assodata e assolata. Accecante teorema autodistruttivo e stagnante psychothriller che sacrifica l’altissima leggibilità del romanzo sull’altare dell’inattendibilità assoluta (la trasposizione di un libro page-turner si tramuta in un film paludoso e ingarbugliatissimo), L’uomo del labirinto si attesta inequivocabilmente come uno degli esempi più adamantini dell’estetica insensata del cinema contemporaneo. E di fronte a un progetto suicidale così scrupolosamente architettato e messo in scena non possiamo che toglierci il cappello. Chapeau!
