Avventura, Commedia, Fantastico, Sala

L’UOMO CHE UCCISE DON CHISCIOTTE

Titolo OriginaleThe Man Who Killed Don Quixote
NazioneGran Bretagna, Spagna, Francia, Portogallo, Belgio
Anno Produzione2017
Durata132'
Liberamente ispiratoa Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes
Fotografia

TRAMA

Toby è un regista di spot che sta attraversando la Spagna per delle riprese. Durante il viaggio s’imbatte in uno studente che gli da una copia del primo film che Toby realizzò mentre era ancora uno studente: una versione della storia di Don Quixote ambientata in un antico e caratteristico villaggio spagnolo. Commosso, Toby parte per un bizzarro viaggio alla ricerca del piccolo villaggio dove aveva girato quel film. Ma presto si troverà coinvolto in una serie di catastrofi.

RECENSIONI

Nel 1998 Titanic trionfava agli Oscar con 11 statuette su 14 nomination, La vita è bella vinceva il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes, Salvate il soldato Ryan apriva la Mostra del Cinema di Venezia, La sottile linea rossa segnava il ritorno al cinema di Terrence Malick dopo vent'anni di silenzio e Terry Gilliam riusciva finalmente ad entrare in fase di pre-produzione del suo progetto più ambizioso, un film ispirato alle vicende del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Le riprese (protagonisti Jean Rochefort e Johnny Depp) iniziarono due anni dopo, ma gli infausti esiti di quella avventura sono ormai tristemente noti e documentati nel preziosissimo Lost in La Mancha di Keith Fulton e Louis Pepe (2002). Insomma, quello che avrebbe dovuto essere il making of del sogno di una vita, è diventata la cronaca di una disfatta epocale, scolpita nel marmo della Storia del cinema. Tra investitori usciti di scena poco tempo prima dell'inizio delle riprese, spaventosi nubifragi in grado di danneggiare l'attrezzatura e di modificare il paesaggio attorno al set e un Rochefort in condizioni fisiche piuttosto precarie, Gilliam e le sue smisurate ambizioni dovettero fare i conti con una realtà ostile e maledetta. I giganti erano davvero giganti, contro i quali non c'era proprio nulla da fare. Era ancora il 2000 quando le riprese si bloccarono e il progetto venne momentaneamente messo da parte. Da allora (e prima di allora: l'idea nasce già nel 1989) Gilliam ha sempre inseguito il suo Don Chisciotte, riscrivendo la sceneggiatura e cambiando innumerevoli volte le scelte di casting, nondimeno continuando ad incontrare enormi difficoltà, soprattutto nella ricerca dei finanziamenti. Insomma, per portare a termine quella che ormai era diventata a tutti gli effetti la sua ossessione («Every film I've done since then has been because I couldn't get Quixote made» dirà), Gilliam ne ha passate di ogni sorta, tanto che è difficile oggi riuscire a comprendere quanto sia rimasto del Chisciotte abbandonato a inizio millennio. Nonostante durante la presentazione del film alla Cineteca di Bologna ci abbia tenuto a specificare che questa versione è frutto di una lavorazione durata un anno e mezzo e non dei molteplici tentativi falliti che si sono susseguiti nel corso degli ultimi tre decenni, è davvero difficile, da spettatori, non tenere conto di quello che è passato alla storia come l'inferno produttivo per antonomasia, una testimonianza diretta di cosa succede quando tutto ciò che può andar male va anche peggio. È davvero difficile non adottare costantemente tutto ciò che sta fuori dal testo e prima del testo come metro di confronto e riflessione per ogni immagine, ogni battuta di dialogo, ogni scelta di regia.

Ora, per tutto quello che si è cercato di riassumere in questo paragrafo introduttivo, L'uomo che uccise Don Chisciotte è ovviamente, prevedibilmente, ma pure inevitabilmente, anche un film sul suo farsi. E non solo perché la vicenda narrata stimola facili letture in questa direzione (un regista alle prese con i fantasmi di un passato in cui ha realizzato un film dal titolo The Man Who Killed Don Quixote), ma soprattutto perché è la sua stessa esistenza a farsi carico di una serie di significati profondamente connessi alla (sua) creazione, intesa come compimento di un'impresa assurda e titanica. Poiché se è vero che tra le costanti più evidenti dell'opera di Gilliam un posto di assoluto rilievo è occupato dal tema del racconto-sogno quale forma di evasione e ribellione contro una realtà sempre oscura, opprimente e desolante (penso soprattutto a Le avventure del barone di Munchausen, ma anche a Brazil o ai più recenti Tideland e The Zero Theorem) è chiaro che nella lunga lotta per realizzare il suo Don Chisciotte, contro il destino, contro la sfortuna, contro i tanti potenziali finanziatori che non hanno creduto nel progetto, si cela già tutto questo. Non (solo) nel film, ma prima del film. Come se per Gilliam la necessità di raccontare, di rendere visibili i suoi sogni e le sue visioni, sia talmente forte da superare qualsiasi ostacolo imposto dalla realtà. Come se il cinema sia prima di tutto il gesto urgente di fare cinema e solo secondariamente il risultato di tale azione (importanza del gesto e trasfigurazione della realtà: in un certo senso, Jodorowsky e il suo dittico La danza della realtà-Poesia senza fine non sono poi così lontani).

Insomma, l'eccezionalità di un film come questo sta proprio nel profondo rapporto che instaura con il suo mastodontico fuoricampo, che è anche, ancora inevitabilmente, un fuori-tempo. A ben guardare infatti, più che con la recente filmografia del regista, questo Don Chisciotte pare dialogare a meraviglia con i suoi lavori degli anni '80, i già citati Brazil e Munchausen, dai quali Gilliam riprende sì diversi elementi stilistici e tematici, ma soprattutto quel senso di libertà del racconto e quell'ispirazione genuina e personale che negli anni '00 e '10 non aveva più ritrovato. Alla larga però da qualsiasi sguardo nostalgico o passatista, L'uomo che uccise Don Chisciotte è un film permeato di uno spirito profondamente contemporaneo. La progressiva indecifrabilità dei piani narrativi lo rende infatti un perfetto termometro della perdita di coordinate del nostro presente (banalmente, reale/fantasia come reale/virtuale), un mondo in cui per riuscire ad orientarsi e a sopravvivere l'unica strada possibile sembra essere quella che porta alla follia. Le ombre del terrorismo, un fanatismo religioso che si pensava superato per sempre, ma anche l'alcolismo e gli uomini che odiano le donne: lontano dalle distopie dei suoi lavori fantascientifici, Gilliam non manca di alludere ad un oggi oscuro e senza speranza («io vivo qui e muoio qui» dice ad un certo punto una paesana che abita in un desolante rudere abbandonato), da contrastare, come sempre, con la forza della fantasia. Perché quando l'amore non lo si riesce a trovare nella realtà, significa che bisogna semplicemente iniziare a cercare altrove.
Ancora l'amore, finalmente l'amore. L'amore impossibile per la donna dei propri sogni (geniale in questo senso la scelta di far interpretare il Don Chisciotte a Jonathan Pryce, che avevamo abbandonato ai suoi deliri e con il sorriso sulle labbra nell'amaro finale di Brazil), amore per una narrazione libera da condizionamenti, amore per le proprie visioni, anche quando queste sono palesemente eccessive, strabordanti, gratuite, autoreferenziali. Poco importa allora se nella parte centrale la narrazione diventa prolissa (un difetto che accompagna praticamente tutta la filmografia di Gilliam) e se il film dopo un'ora sembra aver esaurito le cartucce, per poi riprendersi in un gran finale. Poco contano imperfezioni di questo tipo di fronte a tutto questo amore e a tutto questo libero, irrequieto, infantile, generoso, contagioso entusiasmo.
Sono passati quasi trent'anni, ma oggi è ancora un gran giorno per un'avventura.