TRAMA
Un paese ai margini della Metropoli. Vincent, un operaio con moglie, due figli e una madre a carico, stanco della routine del lavoro, un giorno non entra in fabbrica e si mette in viaggio.
RECENSIONI
Se consideriamo seriamente queste cose (i limiti, la paradossalità, l'insensatezza del nostro modo di vivere - NdR) è un film politico. Se la politica viene concepita come un partito preso contro gli altri non è un film politico. Se la politica è qualcosa che serve al miglioramento della vita sociale non è un film politico, se è qualcosa di diverso che vivere insieme agli altri la disperazione, è un film politico.
Otar Iosselliani
Sbarre le ore del giorno, il quotidianogabbia in cui un uomo, stordito di routine, diventa mero ingranaggio, forza lavoro desensibilizzata. Nel soffocante ricorrere di lunedì mattina, di settimane che scorrono uguali a se stesse, anche fumare una sigaretta diventa difficile: la si getta a terra nel salire sul treno dei pendolari; la si spegne, consumata a metà, all'ingresso in fabbrica dove campeggia, enorme, la scritta DEFENSE DE FUMER. Tutti cercano di ritagliarsi quel momento di piacere, due tiri da una "bionda", ma di nascosto perchè il fumo è vietato anche in un complesso industriale saturo di miasmi inquinanti. A Vincent piace dipingere, lo fa in una casa in cui tenta di parlare a due figli dai quali non riceve attenzione, ciascuno perso in un proprio mondo di vicende parallele, e in cui la moglie lo cerca solo per fargli riparare la grondaia. Un giorno, dinnanzi alla fabbrica, mentre i suoi compagni fanno il solito gesto (smettono di fumare, varcano il cancello dello stabilimento), Vincent azzarda una svolta al suo destino e, non spegnendo la sigaretta (cfr. SMOKINGNO SMOKING di Resnais), si allontana. Iosseliani sa dipingere il suo pessimismo con le tinte lievi di un'ironia disincantata e disingannata: le ultime prove - da CACCIA ALLE FARFALLE al sottovalutato BRIGANTI, BRIGANTI fino al penultimo ADDIO TERRAFERMA - ci dicono di un autore sì rassegnato al Male del Mondo ma ancora in grado di irriderlo con la grazia surreale del Paradosso. LUNDI MATIN è un film iosselianamente ondivago, in cui il cineasta, concertando l'azione con la fine maestria di un grande cerimoniere della scena, coniuga gusto dell'Assurdo con dinamiche funamboliche di slapstick mentale, passando di situazione in situazione e seguendo il suo percorso senza perdere di vista il quadro generale, assecondando un istinto all'accumulo in cui a un prete voyeur e beone si accompagna una nonna che gira in coupé, all'amico che lavora come guardiano dei cessi (ma lo fa travestito da donna ché sennò perde l'impiego), segue un postino che apre le missive con l'aria calda, salvo richiuderle col ferro da stiro. Nel delicato ma pungente affresco si segue il percorso di Vincent, operaio, figlio di un ricco borghese, che, durante un viaggio che vuol essere rigenerativo, offertogli dal genitore, va a trovare, a Venezia, un Marchese (lo stesso Iosseliani) amico del padre. Un Marchese che per accogliere l'ospite non disdegna di ricostruire la posticcia scenografia dei fatui fasti della sua classe, per toccare la vertigine della finzione (dopo aver finto di aver suonato il pianoforte, di fronte a Vincent si scompiglia la chioma, simulando il pathos dell'interpretazione, e raccoglie l'applauso di un pubblico che non esiste); ma il quadro illusorio del Ceto Perfetto alla fine si screpola: accomiatato l'ospite, grida sguaiate giungono dall'interno della nobile e ovattata dimora. Ma Venezia è anche Marghera, la città delle gondole conosce pure la disperazione, la lotta per il pane, la fabbrica, il lavoro duro, le sveglie all'alba, il tragico tran-tran della fatica alienante: l'amico italiano si reca al lavoro assieme agli altri operai che spengono le loro sigarette all'ingresso dello stabilimento. Una scritta: VIETATO FUMARE. E' sempre la stessa storia dunque, è semmai la Storia a non essere mai uguale, soggetta com'è a mille interpretazioni (ieri si diceva che i Sovietici erano i cattivi, oggi che in fondo non lo sono stati poi tanto), "La Storia può essere bugiarda, la matematica è più sicura" afferma il figlio di Vincent: che quella della Storia non sia una lezione è un concetto che i film del regista ci ripetono da anni (anzi ci suggeriscono, lungi dal Maestro l'intento di salire in cattedra). Dunque se la polemica è l'anima di questo acuto divertissment, non lo è di meno il garbo di un autore che con la grazia di un ballerino scaglia flessuose lance acuminate; nessuna rinuncia alla maniera delle sue opere migliori: dialoghi rarefatti - vaccinati dal morbo didascalico di quasi tutto il cinema nel quale incappiamo -; presenze grottescamente bunueliane (il coccodrillo si pone sul registro dissonante del trampoliere di ADDIO TERRAFERMA) in uno sfondo in cui, come nel film precedente, le classi sociali si mischiano; constatazione del vissuto (persone che agiscono, parlano e semplicemente vivono, che intravediamo attraverso le finestre di una casa o scorgiamo in strada mentre camminano); registro realistico di un sonoro sempre significativo e determinante (assolutamente opportuna la scelta di distribuire LUNDI MATIN con la colonna sonora originale e i sottotitoli) per il solito, impagabile, eccentrico ritratto della Vita condannata alla vanità dell'accadere.
... E intanto, la ricca e bella signora di nero vestita, incontrata in treno, scorrazza in motoscafo per i canali veneziani. La sigaretta in bocca...
Sulla parete di una chiesetta di campagna prende forma, con la lenta implacabilità che è propria del destino, un affresco raffigurante san Giorgio nell’atto di colpire il drago. Ma il curato è inquieto: il dipinto gli sembra “non ortodosso”, e il cavaliere vi appare come un aguzzino, più che come un salvatore. La replica del pittore è glaciale: il santo era un uomo crudele, che ha privato una dama dell’animaletto cui ella era affezionata. Metafora trasparente: il drago sta per la gioia di vivere che l’uomo sperimenta finché non arriva il Dovere a ristabilire un ordine che non è salvezza, ma vuota disciplina, mera castrazione. Alla fine della settimana ci illudiamo di essere liberi, ma ogni lunedì mattina ci riporta alla realtà, e la sigaretta, minuscola fiamma prodotta dal draghetto in cui ci trasformiamo per un paio di giorni, deve essere spenta. Non serve fuggire: il ritorno alla “normalità” può essere procrastinato, non eluso. Unico rimedio, provvisorio, a tale condanna: la finzione, una parentesi rigeneratrice. Ma Iosseliani, attento ad evitare ogni parvenza di vacua retorica, non concede nulla (o quasi) alla Grande Arte, preferendo concentrarsi su forme minime, anche meschine, di rappresentazione menzognera. In una città come Venezia il regista non si sofferma su chiese o monumenti, ma su una figura di nobile decaduto: la scena, con un dialogo sapientemente vacuo e millimetrici movimenti di macchina, costruisce un’atmosfera di mascherata patetica e sterile, ma infinitamente bella da vedere e da ascoltare. E da proiettare, come fanno i ragazzi con la diapositiva che ripropone il tema dell’affresco sacro. Come i suoi personaggi, il regista ama ciò che è “inutile” e rigorosamente simulato: ad esempio, la scena in cui Vincent viene pestato da un gruppo di teppisti è costruita in modo che la parte più violenta dell’azione sia celata agli sguardi del pubblico da un portone accuratamente chiuso. Il protagonista è trasportato all’interno dagli avversari e, poco dopo, torna in strada, sanguinante e con la giacca strappata: il tutto in una sola inquadratura, nella quale l’edificio diviene palese quinta teatrale. Come il “suo” marchese veneziano, il regista si diverte a radunare indizi, invenzioni, scherzi geniali e imprevedibili, non di rado carichi di un’ironia sublime. Magnifico il caso delle tre signore che “vegliano” il padre di Vincent e, a un certo punto, giocano con un gomitolo di lana: davvero terribili, come Parche.