TRAMA
Il corpo esanime di una bambina violentata viene ritrovato nelle campagne limitrofe a una cittadina del nord est francese. Pharaon è il poliziotto incaricato delle indagini.
RECENSIONI
Pharaon sommerso dai pensieri. Musica: spinetta impazzita. Un cammino affannoso che diventa corsa; l'uomo casca, quasi morde la terra. Un sesso di bambina: oscenamente spalancato, ignobilmente violato. E poi mani, colli sudati, corpi veri, facce segnate, una vecchina che dorme, il bambino con l'aranciata al bar. Lo sguardo si perde tra i movimenti, i gesti ordinari, in un quotidiano dolore. Solitudine silenziosa di un universo sbarrato. L'uomo si muove quasi in catalessi, l'inerzia della sofferenza, una ferita dentro che spurga e ottunde le facoltà, rigetta la reazione. Nessuna concessione: la vita è una merda, non ci si muove che tra le cose di tutti i giorni, nella mediocrità di un'esistenza che attende solo di finire. Il sesso a tratti: selvaggio, animalesco. Basta con l'ipocrisia del "fare l'amore": l'uomo penetra furiosamente la donna, semplicemente si scopa, in una stanza anonima, sul letto, su un divano, per terra. Ed è sesso ansimante, crudo, rabbioso, senza carezze, senza parole, senza occhi negli occhi. L'amore non esiste e quel "Ti amo" al tavolino del bar suona vuoto, seguito com'è da un intrecciarsi di dita senza tenerezza, mani che dicono ancora corpo, ancora sesso, ancora scopare. E poi improvvisa, speculare alla prima, un'altra vagina aperta: adulta stavolta, viva stavolta e il fil rouge tremendo tra i due sessi, quello adolescente e violentato, quello adulto e offerto, appare improvviso, chiaro ma egualmente indifferente. Perché siamo in un noir senza storia, con un ispettore senza pistola, alle prese con un'indagine senza punti cruciali. Perché tutto è visione, tutto è afferrabile, niente passa sotto traccia. Niente da capire, solo ossessivo guardare, fissare figure che si muovono in una realtà antipoetica, antiestetizzante, antihollywoodiana. Tutto è concreto, quasi palpabile, urla la sua essenza, non si nasconde, non si edulcora. Retorica zero, nessuna atmosfera effettata, nessun idealismo. Ancora (dopo La vie de Jesus) una figura cristologica, un uomo che ama e quasi combatte contro questo suo istinto, tocca, bacia il suo simile, vuole consolare e essere consolato, vuole riscattare quell'umanità sperduta, anche quando spaccia, anche quando stupra. E l'altare della chiesa, d'un tratto, di sfuggita, mentre Domino cammina, è un monito? Un miraggio? La suprema illusione? Neanche l'abbraccio finale è consolatorio, seguito da un'ultima immagine di vuota solitudine, di tormento inesauribile.
L'umanità è un groppo in gola di due ore e mezza. Un film che rompe qualcosa dentro. Come Pharaon vorremmo urlare davanti al fracasso coprente di un treno in corsa. Forse è giusto continuare a illudersi con le bellezze finte e i sorrisi a tutta dentiera che la macchina dei sogni ci propina senza pause. Forse hanno ragione loro: L'umanità di Dumont è cinema insopportabile, sarebbe bene evitarlo.