Avventura, Recensione

L’ULTIMO SAMURAI

TRAMA

1876: eroe nella lotta contro gli indiani, viene ingaggiato dall’imperatore giapponese per addestrare l’esercito e fermare la ribellione dei samurai.

RECENSIONI

L’ennesimo kolossal bellico etic-epico di Zwick prende le mosse da un soggetto di John-Il Gladiatore-Logan e ne disperde le potenzialità (oniriche=la tigre bianca; poetiche=la perfezione dei fiori; romantiche=la moglie in odio/amore; spirituali=la via del samurai; tragiche=i fantasmi del Soldato Blu) in una drammaturgia esteriore, senza piglio figurativo, enfatica e adulata dalle parentesi umoristiche fuori luogo. Si parte con Buffalo Bill e gli Indiani (la leggenda del West ridotta a sponsor) poi si Balla coi Lupi, rendendo speculari Cheyenne e Samurai: la stessa fotografia dell’eccidio dei pellirosse colora la prima epica apparizione al ralenti (molto kurosawiana) dei samurai nel bosco. Cruise che fa Cruise è elettrizzante quando tenta di persuadere i superiori dell’inesperienza dei soldati, quando combatte come una tigre conquistando lo sguardo dell’avversario, quando chiama il replay (buon’idea) di un’azione Zatoichiana contro quattro avversari; è ingombrante quando preferisce la gloria al senso (perché si ostina a combattere sotto la pioggia contro l’allenatore di sciabola?), quando sceglie il bushido senza manifesta conversione e quando si crede un vero samurai impressionando l’inebetito imperatore (che figura irrisolta!). Il buddy-movie rimpiazza quello che poteva essere un appassionante incontro (Cruise/Watanabe) e il racconto si dilunga, spesso sconnesso e senza cognizione di causa (il muto appello all’imperatore? L’imprevista cattura di Watanabe?). Infine, lo spettacolare scontro finale, un Braveheart chiuso da Il Mucchio Selvaggio, dove l’eroe dei due mondi comprende la virtù della morte onorevole. Due scene loro malgrado emblematiche (la morte del figlio del samurai e la strage delle mitragliatrici) evocano ciò che l’opera dimentica paradossalmente di suggerire (è deciso aprioristicamente che, nella contrapposizione tradizione/progresso, l’onore stia solo da una parte): le pavide armi da fuoco straziano la carne e vanificano il valore dell’avversario. Come se la tecnologia, omologandola, uccidesse l’abilità.

I sospetti che Tom Cruise abbia perso il senso della misura cominciano ad essere preoccupanti. Già da un po’ il Nostro si autoproduce ritagliandosi ruoli ora da eroe fighissimo e sine macula (Mission Impossible 2), ora studiatamente controversi, con tanto di parziale e calcolatissima rinuncia alla propria “proverbiale” bellezza (Vanilla Sky), ora incensandosi senza ritegno alcuno (il film del quale state leggendo). L’ultimo Samurai è infatti un ipertrofico, epico ed autocelebrativo monumento al proprio status di Divo, e il Tom ne esce ingombrante e fagocitafilm come ogni buon divo che si rispetti. Per questo suo personale Balla coi lupi (del quale L’ultimo Samurai è per buoni ¾ un pedissequo remake), Cruise si è (ri)trovato un regista capace ma senza troppi personalistici grilli per la testa (dunque perfetto), coadiuvato da stimati professionisti dell’Epica Kolossal Con Un Minimo Di Gusto, che avrebbero dovuto scongiurare il pericolo-polpettone sempre in agguato. Il merito (se di merito alla fine si tratta) va soprattutto alla fotografia di John Toll, esperto in cruisologia (Vanilla Sky), capace di catturare i grandi spazi senza scadere nel cartolinismo d’accatto (La sottile linea rossa) e nondimeno pronto, all’occorrenza, a dotare l’immagine del giusto, grossolano vigore macho (Braveheart); ma una grossa zampona ce la mettono pure le enfatiche e rozzamente efficaci musiche di Hans Zimmer (Il Gladiatore) e il montaggio serrato memore di quel Braveheart (il responsabile è lo stesso: Steven Rosenblum) che, volenti o nolenti, ha settato degli standard per i virili corpo a corpo di massa nel cinema contemporaneo. Tornando a(l personaggio di) Tom Cruise, parlando del quale si parla del film tutto: Nathan Algren è un soldato esperto ed invincibile, tormentato dai sensi di colpa, reso ultracinico dal disincanto cosmico di chi, in vita sua, le ha viste tutte ma proprio tutte. Lo rimetteranno sulla retta via gli insegnamenti che gli provengono dalla conoscenza del mondo altro dei Samurai, emblema di quell’Oriente idealizzato che gli occidentali fingono di ammirare e di prendere come esempio da seguire: ecco che il film snocciola, per bocca soprattutto di Katsumoto (Ben Watanabe), pillole di saggezza guerriera in odore di Zen, vagamente poetiche, in cui emerge una sorta di innocenza/purezza primordiale che dovrebbe attivare la nostalgia (?) per un mondo in cui l’Onore e il Coraggio sono gli unici valori possibili e, per così dire, sufficienti a settare una condotta di vita “completa”. Il colmo, però, è che non solo il personaggio di Cruise (l’Occidente tutto?) rimane folgorato da quel sistema di valori “estranei”, non solo ne ca(r)pisce tutte le sfumature, non solo li assimila, li metabolizza e li fa pienamente suoi, ma ne diventa addirittura il massimo depositario nonché ultimo, “definitivo” baluardo; il che mi pare francamente troppo – ossia – sintomo di un atteggiamento fondamentalmente “facilone” nei confronti dell’incensata Cultura altra, che sfocia nell’irrispettoso, nel prepotente e nell’arrogante. Detto questo, il giocattolone nel complesso funziona, sebbene un finale a tarallucci e sakè, con Cruise (super)eroe che torna dall’amata geisha, rischi seriamente di gettare alle ortiche il (poco di) buono costruito durante tutta la pellicola. Ma si badi: l’emozione “vera”, per quanto premeditata o confezionata come si conviene in un prodotto del genere, il trasporto “genuino”, quella scintilla che ci dice(va) “ma sì, fatti venire un accenno di pelle d’oca” alle grida “libertarie” del cuore impavido di Mel Gibson, non scattano mai. Tutto è soffocato sul nascere da una troppo palese, dunque fastidiosa, insincerità di fondo, figlia anche e soprattutto del delirio di onnipotenza di una Star che lascia ormai poco spazio all’ altro da sé.

Tom Cruise e' uno dei pochi attori che solo con la sua fotografia accanto al titolo riesce ad attirare mezzo mondo al cinema. Senza addentrarci nel fenomeno divistico che, abbastanza incomprensibilmente, lo circonda, trasformando in evento ogni film di cui e' protagonista, resta comunque un mistero la pioggia di consensi, anche critici, ricevuti da "L'ultimo Samurai". Basta infatti l'enfatica voce off che accompagna i primi fotogrammi per farci capire che saremo testimoni di un polpettone in piena regola. Una storia che, nonostante i precisi connotati temporali e geografici (la fine del 1870 in Giappone) e un'apertura un tempo impensabile nei confronti della cultura orientale, potrebbe essere stata scritta cinquant'anni fa. Un calibrato miscuglio di "Balla coi lupi", "Braveheart" e "Il gladiatore", senza pero' il realismo del film di Costner, la forza del Wallace di Mel Gibson e la fascinazione visiva di Ridley Scott. Quello che ne viene fuori e' un onesto (mantiene cio' che promette) quanto superficiale lungometraggio, che sciorina l'ennesima facile lezioncina sui veri valori a cui ispirarsi per raggiungere e mantenere la civilta'. Nel caso specifico tocca all'onore, esaltato come punto di partenza e di arrivo per una vita che si voglia degna di essere vissuta. E' quindi la retorica il collante delle varie sequenze, che prevedono il solito percorso di formazione, immancabile nelle pellicole hollywoodiane incentrate sul confronto tra etnie diverse. La prima parte non ci risparmia infatti nessun luogo comune: l'eroe decaduto, la miracolosa salvezza in campo nemico, l'incontro con la saggezza di quello che si credeva il burbero avversario, la contaminazione, il training fisico (da far rimpiangere il "metti la cera", "togli la cera" di "Karate Kid"), la scelta decisiva, il grande scontro, il prima graduale e poi brusco ridursi della zavorra (ne restera' soltanto uno), fino al sanguinoso trionfo. Dalle stalle, ovviamente, alle stelle. La messa in scena di Edward Zwick (il cui pedigree vanta la simil-polpetta "Vento di passioni") si salva solo nel respiro epico delle battaglie, dall'impatto forte e spettacolare. Per il resto pecca di approssimazione: non basta un vicolo con due panni stesi per fare vecchio West, o qualche probo contadino piegato in due sui campi mentre bambinetti da spot giocano tra loro e la bella di turno cucina manicaretti, per rendere la quotidianita' di un remoto villaggio giapponese. E non bastano due sottotitoli per dare l'idea che il problema linguistico sia stato affrontato con precisione (come non sorridere al giappo-italiano che trasforma un samurai nella voce automatica che annuncia i treni in stazione?) Certo, la sceneggiatura non aiuta; traveste ogni dialogo con la carta argentata di un Bacio Perugina e appiattisce qualsiasi implicazione caratterizzando in modo solo apparentemente problematico i personaggi; lo stesso protagonista ha infatti le idee chiare sul da farsi e ben pochi dubbi: sceglie sempre la strada giusta, cade e si rialza senza particolari strascichi fisici ed emotivi e non traspare mai la sua vulnerabilita'. Del resto, come dargli torto: arriva in un villaggio che sembra il Paradiso Terrestre (o la Terra di Mezzo?), dove tutti lavorano duro, si vogliono bene e inseguono nobili ideali, viene trattato con ogni riguardo e incontra pure l'amore in una graziosa e delicata fanciulla (la modella Koyuki)! Ma veniamo a lui, la star mondiale, che oltre a interpretare, co-produce il costoso progetto.
Tom Cruise ci mette anima e corpo impegnandosi a essere credibile come samurai, ma l'espressivita' soggiace all'enfasi con cui accentua sguardi e gesti pensando all'Oscar (una scena per tutte: il pistolotto iniziale sotto i fumi dell'alcool). Come guerriero riesce a cavarsela, ma gli ruba la scena il ben piu' carismatico Ken Watanabe. Anche lui, pero', ridotto a cartolina di quello che lo stereotipo vuole come orientale. Largo quindi a sake', saggezza antica, harakiri, emozioni contratte, rispetto, formalita', disciplina, onore e ovviamente la Katana (divenuta oggetto di culto per feticisti della superficie). Tutto vero, probabilmente, ma non necessariamente credibile nella concentrazione da Bignami operata da Zwick.
Non spicca neanche la centesima colonna sonora del piu' che prolifico Hans Zimmer. Lo "score" sfrutta sonorita' ampiamente rodate cercando una suggestiva commistione di pathos ed epicita', ma si limita a echeggiare "Il Gladiatore" senza imprimersi nella memoria.