Documentario, Sala

L’ULTIMO PASTORE

TRAMA

La storia di Renato Zucchelli, ultimo pastore nomade, e di come portò le sue pecore a pascolare in piazza Duomo a Milano.

RECENSIONI


L’ultimo pastore è un film di resistenza. Già descrivere il mestiere residuale del pastore, come fa il documentario di Marco Bonfanti (classe 1980), suona come provocazione contro l’incedere dell’urbanizzazione che avanza, oggi, a Milano nel 2012. Il solo atto di inscenare la condizione di Renato Zucchelli, ultimo pastore, significa automaticamente calarsi nel tessuto culturale italiano da una precisa prospettiva (la citazione a Celentano, l’impegno ecologista, l’antirazzismo). E poi questa angolazione accostarla con altre, in un graduale intreccio di elementi che forma la tradizione: la pastorizia incrocia la religione, l’allevamento degli animali serve a comporre il presepe vivente anche senza particolare devozione (la questione è liquidata: “Così dice la storia”). Se la natività viene affidata alla narrazione orale, fa parte di un patrimonio mitico, esattamente il contrario è il ruolo/lavoro del pastore: questo afferma l’esigenza di esserci, qui e ora, esce dal mito ed entra nel racconto, si mostra a noi ma questo non basta, allora scende dai monti e supera il confine, entra in città per  incontrare i bambini. In un misto tra ostentazione concreta di sé e resistenza ideale della sua figura, il pastore sfida la “dimenticanza” della Natura: deve farsi vedere, deve dire che c’è.


Ma sarebbe fuorviante ridurre il primo lungometraggio di Bonfanti alla sostanza del “fatto”. Seppure conquistante e simpatico (in senso etimologico: l’umore è comune), il paradosso del pastore non è il punto della pellicola: la chiave è invece l’impaginazione stilistica, come la storia è raccontata, quanto incide il linguaggio. A partire dall’inizio, con i titoli di testa che si formano attraverso i disegni stilizzati degli alunni delle elementari: apertura che può sembrare una boutade, ma che - più avanti - si rivelerà tassello centrale dell’intreccio, come testimonianza preclara dell’ignoranza fanciullesca (le pecore sono schizzi, non si conoscono) che rende indifferibile la “rivolta” in beffa all’urbanesimo. A seguire subito un esempio di scrittura drammaturgica, che non è fuori contesto davanti alla materia documentaria, anzi: prima il regista delinea l’attività e l’ambiente del pastore, lo lascia parlare in camera e poi - con un’agnizione da navigato screenplayer - rivela l’esistenza di un’insospettabile e numerosa famiglia che lo aspetta a casa, giù in città tra quattro mura post-industriali, in antitesi con lo spazio potenzialmente infinito e la fuga prospettica delle valli lombarde.


E’ il primo indizio della solida conduzione del film, che nel suo dispiegarsi offre molti nodi senza disporre dello sbrigativo scioglimento: la presunta follia dei pastori rimasti, esplicitata nella devianza di Piero (l’assistente di Renato vede un cane invisibile), e il sospetto che questo disadattamento di fondo investa implicitamente anche il protagonista; la rivelazione sulla destinazione finale della sua attività, il pastore vende gli ovini per farli macellare; gli accidenti più crudi dell’ipotesi campestre, come la ripresa della nascita dell’agnello che, appena uscito ab utero, si ritrova smarrito nella vita sulla terra. Senza contare il tentativo di “epicizzare” la storia, affidato soprattutto al ralenti (le pecore gradualmente “marciano” in un tunnel urbano); soluzione che da una parte rischia di sovraccaricare artificialmente il narrato, ma dall’altra viene valorizzata dalla soundtrack originale di Danilo Caposeno che produce un’andatura ipnotica e alienante.


Nell’azione di occupare piazza Duomo, quando l’inquadratura si allarga dal dettaglio del gregge e mostra la totalità della situazione, quando il quadro è completo, allora il pastore diventa notizia da telegiornale: curiosità immessa distrattamente nel circolo mediatico, segnalazione da enunciare con falsa sorpresa, uno scherzo prima della sigla. Non c’è da stupirsi: la società dello spettacolo non capisce chi parla un’altra lingua, il dialetto premedievale Gaì come la liturgia sarda di Su Re, simile miniatura petrosa bagnata di terra e memoria. Ecco perché il saluto del pastore trabocca di ambiguità: Renato è l’ultimo, la scomparsa della sua immagine non è solo fine di una storia, ma il preludio alla sparizione di un mondo. Il pastore si congeda, ci lascia: la figura svanisce, sfuma nella dissolvenza in nero.