TRAMA
Carlo (Stefano Accorsi) aspetta una figlia da Giulia (Giovanna Mezzogiorno), ma l’idea di diventare padre e sistemarsi definitivamente lo spaventa. Attorno a lui i suoi amici più cari, vivono allo stesso modo la paura di diventare definitivamente grandi…
RECENSIONI
Sono tante le considerazioni suggerite dal nuovo film di Muccino, che passa con disinvoltura dalla freschezza adolescenziale di "Come te nessuno mai" alla problematicita' piu' amara degli attuali trentenni. Partendo dagli aspetti tecnici, si deve riconoscere al giovane regista la capacita' di dirigere in modo molto convincente gli attori. Nel film, tutto il cast risulta in parte: Accorsi ha il giusto smarrimento, Giovanna Mezzogiorno e', oltre che molto bella, davvero espressiva, finalmente Stefania Sandrelli, che interpreta sempre il solito personaggio evanescente e un po' distratto, sembra piu' libera di esprimersi e non pare stonata, ma anche la giovanissima lolita Martina Stella e il bravissimo comprimario Claudio Santamaria colpiscono per spontaneita' interpretativa. A parte il cast, risulta efficace l'energia con cui le sequenze sono costruite, sempre ritmo, concitazione, movimenti di macchina veloci, un tentativo piu' che riuscito di affrancarsi dal minimalismo concettuale e pratico di molto cinema italiano degli ultimi anni. Discorso a parte per la colonna sonora, bella ma sempre presente e, soprattutto nella prima parte, eccessiva e disturbante nella comprensione dei dialoghi. Cio' che piu' avvince della pellicola, pero', soprattutto se anagraficamente non si e' lontani dall'eta' dei protagonisti, e' il tema del film: la crisi della "X generation". Uomini insicuri e in fondo fragili, con la disperata paura di sentirsi ingabbiati in un ruolo sociale che non li rappresenta e il terrore di raggiungere l'inizio del declino fisico ed emotivo dei quarant'anni. E donne nella maggior parte delle situazioni "con le palle", possessive, in cerca di continue conferme e con il fine ultimo di formare una famiglia, punto di arrivo ma spesso di nuova partenza per una crisi del rapporto a due. Tutto questo e' descritto da Muccino con contrapposizioni forti ed estreme, efficaci da seguire su grande schermo, ma non sempre cosi' definite e consapevoli nella vita reale, dove le sfumature hanno il piu' delle volte la meglio. Sfumature che risultano l'approdo a cui i protagonisti giungono, ma che in realta' hanno origine da personaggi profondamente "tipizzati", e il termine "tipo" non si riferisce alla loro caratterizzazione, ma a cio' che simbolicamente rappresentano: la coppia trentenne alle soglie del matrimonio, la ragazzina adolescente, la coppia che non funziona dopo la nascita di un figlio, il ragazzo che cambia donna ogni sera ma e' infelice, il ragazzo che cerca una sua strada contro la volonta' paterna, la donna in crisi di mezz'eta'. Personaggi che rischiano quindi di perdere la loro genuina contradditorieta' a favore del "tipo" che rappresentano. Per ultimo, "Come te nessuno mai" descriveva i rapporti adolescenziali e risultava uno specchio universale grazie al comune denominatore della scuola, dove ragazzi di diversa estrazione e mentalita' si incontrano e hanno l'opportunita' di confrontarsi. Ne "L'ultimo bacio", invece, il sentire dei personaggi e' si universale, ma il loro vivere senza problemi economici in bellissime case in affitto o il loro potersi permettere di chiedere una barca allo zio per andare in Turchia, ha una evidente matrice borghese che, in alcune situazioni, rischia di limitare il coinvolgimento. In fondo a scuola quasi tutti ci sono andati, mentre a una casa con giardino da novecento milioni in pochi possono permettersi anche solo di pensarci.

Muccino cucina una magnolia all'amatriciana: nonostante le citazioni più evidenti vengano dal cinema statunitense, i cascami della tradizione nostrana si fanno sentire. I cinque amici e i loro riti di (non)crescita, mutuati e citati senza vergogna da Fandango, ricordano in realta' molto di piu' i protagonisti di "Amici miei" o "Marrakesh Express" che non i "groovers" sulle strade assolate della provincia USA alla ricerca del proprio futuro. E la tanto ricercata "coralità" fallisce proprio in virtù della descrizione di una realtà (narrativa) totalmente chiusa e rigida (cinque amici, ognuno caratterizzato come portatore di una precisa istanza italiota, in un susseguirsi di eventi e snodi prevedibili, riconoscibili ma poco verosimili), fortemente tipizzata, ben lontana dalle splendide, inattese ma plausibili contingenze di "Short Cuts" o "Magnolia" (citato al limite del plagio), piuttosto debitrice (narrativamente) al cinema di Salvatores e compagnia, con tutte le tristi banalità consolatorie fornite di serie. Certo che Muccino gira molto meglio, usa la musica in modo accattivante (in modo, questo sì, felicemente ispirato al capolavoro di Anderson) e impartisce alla vicenda un ritmo che tiene appassionati e avvinti, anche perchè tutto si gioca su stati e dinamiche riconoscibili da pressoché chiunque si trovi in sala, non necessariamente maschi trentenni:dalle ragazzine (trovatene una che non si sia mai innamorata di un uomo adulto), alle nonne (che non vogliono rassegnarsi alla vecchiaia), ognuno ha modo di riconoscere qualcosa di sé. Ritmo concitato, ottenuto anche grazie al continuo cambio di registro: il dramma (bella la prova della Mezzogiorno quando è donna ferita e orgogliosa) più grande non dura mai oltre qualche minuto: Muccino lo butta tosto in risata o pochade (con qualche discreta caduta di tono, come la abusata e gratuita gag dell'irruzione dall'analista, con conseguente sputtanamento di odioso terapeuta, paziente e analisi, citando Allen con una scena che così gratuitamente Allen non farebbe mai). Questo rafforza il ritmo, ma non basta a far riuscire Muccino nel tentativo di rappresentare la vita come serie di relazioni e eventi che sono contingenti, incontrollabili e continuamente mutevoli, tanto da dover essere affrontati in maniera ironica, come succede nel capolavoro al quale così sfacciatamente si ispira. Muccino non riesce a rappresentare la complessità e la assurdità e della vita, e illustra un microcosmo nel quale sembra succedano le cose di tutti i giorni ma che in realtà rimane una classicissima fiction densa di eventi codificati ma inverosimili (uno su tutti l'evento che fa da filo conduttore alla vicenda) che vengono vissuti con enfasi da tipi troppo caratterizzati in un film a tema, nel quale però del tema poco si dice se non quello che tutti possono riconoscere. Questo trascina il film nelle secche di una sorta di compiaciuto e assolutorio "guardate come siamo fatti male", generazionale ma non solo, sua forza al botteghino e al passaparola. Ma se pure il film diverte e appassiona a prescindere da (o forse proprio grazie a) numerosi luoghi comuni su una esigua frazione della generazione che vuole protagonista (ve li devo elencare, davvero?) alla fine è impossibile non provare una senso di fastidiosa irritazione per quello che si rivela essere rassicurante moralismo (furbamente agghindato da male di vivere di poca gente che vive benissimo) o piu' semplicemente accattivante ruffianeria: alla fine tutto si sistema, se ti adegui, anche la fuga non sarà nulla di definitivo, assomiglia semmai ad una bella vacanza, non c'e' malessere che non si possa superare conformandosi a modelli di comportamento comunque innocui (che si tratti di una famigliola da spot dei frollini o di una gita in furgone): stai sereno, caro peterpan. La tirata finale copiata (non si parli di citazione) da "trainspotting", che in quel film dava voce a un ribellismo facilone ma almeno sinceramente acido e incazzoso, qui, girata con luce e movimenti letteralmente mielosi (altro che l'agrodolce che Muccino palesemente ricerca), diventa un inno a quella "rivoluzione nella normalità" che risulta di sconcertante trivialità, in sé e nei modi in cui viene espressa troppe volte nel corso del film. I trentenni senza voglia di crescere, al posto del sonoro schiaffone che ci meriteremmo (non per moralismo, ma da dove altrimenti l'urgenza e la necessità di un film come questo?) si prendono l'ennesima carezza, l'ammiccamento della volgarotta chiosa finale, che altro non fa che buttarla nell'ultima farsa, consolatoria ma sconsolante.

A volte ritornano. Intendiamo le radici profonde di un regista: Muccino, formatosi alla scuola di "Un posto al sole" e della pubblicità del noto caffè solubile, imbastisce un'opera terza che ha la consistenza e il look di una campagna promozionale di San Valentino (sarà solo un caso che "L'ultimo bacio" sia uscito proprio a febbraio?). La storia? Inquietudini di trentenni (e passa) alle prese con padri malati, madri asfittiche o deluse dal matrimonio, compagne irascibili, mariti inaffidabili o monotoni, conviventi bugiardi, sconosciute disincantate, ragazzine sognanti. Non stupitevi se vi sembra un mix di magnoliavitelloniamericanbeautymanhattantuttosalvatores, perché lo è. Ma almeno i film citati (per non dire scopiazzati) dal regista erano opere, se non sempre riuscite sul piano artistico, almeno interessanti a livello dei contenuti, perché parlavano, oltre che dei rispettivi autori, anche del pubblico.
Sarà che chi scrive non ha ancora l'età "giusta" (alias quella dei protagonisti maschili), ma sembra difficile che i trentenni siano tutti, senza eccezioni, bambinoni superficiali e rancorosi, pronti a tuffarsi fra le braccia di una poppante liceale, ragazzine già sfiorite, viziate e munite di impulsi violenti e incontrollabili ma in fondo buonissime, irresponsabili figli di papà che a babbo testé morto vanno a fare una specie di gita fuori porta in camper (in Africa, naturalmente), come del resto appare improbabile che i cinquantenni siano di solito rispettabili padri e madri di famiglia che giocano al divorzio, ex mariti complessati, mamme instabili e svanite da serial televisivo. I personaggi del film (e Muccino, anche sceneggiatore, con loro) fanno di un incidente banale (un pannolino da cambiare, un incontro ad un matrimonio) una catastrofe (cadendo subito nel ridicolo e/o nello stridulo) perché ignorano completamente le catastrofi. Possibile che in un film che si picca di descrivere la vita ("la storia di tutte le storie d'amore", come ammicca furbescamente la campagna promozionale, la cosa migliore del film) tutti vivano avvolti in un sottile ma infrangibile strato di bambagia, in uno scenario da Truman Show, tutto luci flou, paesaggi notturni in giardini di lusso, fontanelle chioccolanti, feste in villa, matrimoni in bianco, incidenti stradali da cui si esce senza un graffio (anche se non si ha la cintura di sicurezza), uffici da rampanti, case linde e anonime che comunicano non già vuoto esistenziale ma pessimo gusto architettonico e decorativo? Possibile che anche le strade cittadine siano immacolate (mancano i tappeti rossi, ahimè), l'acqua dei fiumi un cristallo, i prati inevitabilmente smeraldini sotto un cielo di opale luminescente? Sarebbe ora di finirla con questi preziosismi da soap, con questi vezzi isterici da attori bocciati all'accademia, con questo compiacimento codino e ambiguo che investe ogni atto, ogni parola, ogni silenzio. Ma quale silenzio? Muccino soffre di un irrimediabile horror vacui, e quindi stipa nelle due ore regolamentari tutto quello che già conoscete a memoria ma sicuramente non vedete l'ora di riascoltare (come no!): musica, rumori, steadycam e dolly fino alla nausea, primi piani e dialoghi da fotoromanzo, palpitazioni e fiatoni troppo stupidi per essere messi alla berlina, pubblicità occulta (naturalmente), il tutto senza un minimo di ironia o dubbio. La "nuova estetica del pieno" domina, spadroneggia, intontisce, con effetti facilmente immaginabili sugli attori, incolori e lagnosi, e sul pubblico, cullato nel proprio narcisismo. E alla fine, neppure gli sforzi di Giovanna Mezzogiorno (il suo personaggio, Giulia, è inverosimile come gli altri, ma tifiamo per lei grazie al carisma di questa giovane attrice) salvano questo album di famiglia troppo privato per essere interessante e troppo plateale per essere sincero.

"La normalità è la vera rivoluzione", "La fedeltà è la vera utopia". Tesi ed antitesi convivono nel terzo lungometraggio di Muccino, molto più amaro e cinico dei precedenti, teso a passare in rassegna i luoghi comuni sulla tipica "sindrome da Peter Pan" maschile (o de I Vitelloni), il rifiuto dell'acquisizione di responsabilità della fase adulta, la differenza abissale che separa l'universo femminile da quello degli uomini, l'appiattimento e l'incomunicabilità che ridisegnano i rapporti di coppia di lunga data. La vita, ad un certo punto, prende una direzione ben definita, finisce la fase del "parcheggio", dell'eterna giovinezza (intesa come eterna ignoranza del futuro) e inizia il conteggio degli anni che separano dalla vecchiaia, dalla (presunta) libertà perduta. La femmina vive tutto ciò come una crescita, un completamento del proprio essere: sono gioiose conquiste il matrimonio, la gravidanza, la sicurezza di un legame affettivo duraturo, la gelosa custodia dei valori familiari. Per Il Tigre (Dino Risi), al contrario, inizia l'insofferenza, il terrore, la ricerca affannosa di emozioni "forti" che si rivelano meri palliativi (il bump-jumping come l'amante) ad una condizione perenne d'incertezza. Entrambe i generi sono vittime di rigidi ruoli piccolo-borghesi in cui, da un lato (femminile), c'è l'intolleranza e l'ingenua ottusità, dall'altro il patetico agire menzognero di un sesso "debole" che quei ruoli non ha il coraggio né di viverli né di rifiutarli. L'immedesimazione con i personaggi è dolorosa nonostante il tono tragicomico: Muccino è riuscito, senza essere banale, ad assemblare una serie di stereotipi sull'argomento (vedere anche l'americano Beautiful Girls) per ribadire quanto le nostre esistenze ed i nostri impulsi ad agire siano già codificati, comuni e senza modelli o principi incontrovertibili cui appellarsi. Nonostante qualche forzatura nel pennellare le fazioni (maschi/femmine) ed una parte finale che (apparentemente, vedi la scettica chiusura) sembra perdere la neutralità, l'opera del giovane regista romano ha la rara e notevole dote di stimolare la riflessione su atteggiamenti quotidiani che vengono spesso dati per scontati in quanto s'è persa la visione d'insieme, "dall'alto". Forse "ogni lasciata è persa" o il "ritorno all'ovile" è da saggi codardi. Forse la vera "maturità" sta nell'assumersi la responsabilità delle proprie azioni (qualunque esse siano) fino in fondo, essendo schietti con se stessi e con chi ci ama.

L'ultimo bacio ha una caratteristica sorprendente ed insolita per un film italiano contemporaneo: racconta una storia che può interessare a qualcuno. Forse se ne parla tanto per questo (l'anno scorso c'era Pane e tulipani, quest'anno però il pubblico giovane è chiamato in causa più direttamente). I temi sono fra i più sentiti: pregio e difetto, forte richiamo che deve fare i conti col rischio di risultare abusato, sgualcito dalla banalità da Costanzo show. Ma L'ultimo bacio si salva. Perchè condisce di ironia la pietanza dolceamara (molto più amara che dolce), perchè non concede nulla alla tentazione del consolatorio. E, nonostante tutto, riesce nel gioco dell'identificazione. Ma non dimentichiamolo: il film non merita solo perchè parla di trentenni disorientati ed immaturi e cinquantenni impauriti dalla vecchiaia. Merita soprattutto perchè è diretto da un bravo regista. Un altro pregio: lo splendido cast. Peccato che rispecchi un'umanità inesistente costituita interamente da bellissimi, peccato per un abuso di recitazione "ansimante". Per il resto si tratta di un gruppo ammirevolmente in parte e di livello, colmo di promesse. E se Accorsi è penalizzato da un personaggio troppo spesso afasico ed imbambolato, Giovanna Mezzogiorno brilla su tutti per bravura e fascino.
