
TRAMA
Lorenzo vede morire la figlia Luna mentre immagina e vive in prima persona una torbida relazione descritta nel suo romanzo. Lucia, lettrice innamorata di lui, esplora l’isola dove tutto ebbe inizio.
RECENSIONI
La storia impossibile
Lorenzo (nome del Sole) scrive anche i titoli di testa, mentre muove le fila dei personaggi e ci accompagna a L’Avventura nell’isola (nel Sole) che non c’è, eternamente fluttuante, quarta dimensione dove collassano Tempo e Spazio, Sole, Luna e Mare, Sogno e Realtà, Artista e Pubblico. Il faro fallico indica la grotta vaginale dove, come in un pozzo dei desideri, Gli Amanti del Circolo Polare possono strappare le pagine del loro racconto e farlo implodere per un nuovo Big Bang: pro-creativo. Partono i flashback e si attorcigliano su se stessi, colmi di simbolismi e segni sparsi mai raccolti, mentre si fa il romanzo di formazione che uccide la bambina prima del tempo (il cane Orco geloso?), la favola inintelleggibile, la vacua riflessione sulla scrittura, la falsa apparenza di una illuminante iniziazione sessuale che, all’estrema naturalezza con cui mostra comportamenti intimi (mai) visti al cinema, sovrappone l’ostentazione gratuita (l’erezione del pene al ralenti!). Si fa sesso voyeuristico, esibizionista, masturbatorio, all’ombra della Luna e di madri pornodive, all’insegna di Eros e Thanatos (venire come morire), di Ecco l’Impero dei Sensi e di 9 Settimane e ½, fra pruriti genuini, indotti e ridicoli, false gravidanze e inseminazioni artificiali. Lucia esplora l’arcano in una Formentera dove il digitale sovraesposto confonde i raggi del Sole, impedendo di ricomporre il mosaico di raccordi e accenti della Storia Impossibile senza che s’apra una voragine che inghiotte lo spettatore, lasciandolo senza polvere magica. Il gioco di specchi affascina (abbaglia) nei riflessi di un mare senza profondità, con forme attraenti ma (perché) indefinibili, con smargiasse onde alte due metri che arrivano alla spiaggia sotto forma di innocua spuma. Malato di delirante scrittura come il suo protagonista, ma inabile a enunciare il grottesco con pathos come Almodovar, Medem finisce in un buco nero e perde la geniale idea fra mille idee incompatibili, scandalistiche e genuine, liriche e volgari, cerebrali e passionali, ermetiche e trasparenti, serie e facete, velleitarie e sterili.

Carramba ... che Bluff!
Uno scrittore in crisi creativa trova ispirazione nell'amore di una bella sconosciuta, ma il passato e' in agguato ed e' pronto a tornare per una resa dei conti (non) definitiva, sospesa tra realta' e fantasia. "Non siamo altro che destino" sembrano dire i protagonisti, ma a dirigere questo pasticcio, che arriva in Italia con due anni di ritardo dopo avere mietuto successi un po' ovunque, non ci sono Claude Lelouch o Pedro Almodovar, abili nel coniugare il dramma con la commedia, il concreto con l'evanescente, ma l'aspirante demiurgo Julio Medem. Gli elementi per costruire un intreccio appassionante ci sarebbero. Si parla di eros, arte, mistero, ma non si va oltre una superficie che evoca stati d'animo senza riuscire a trasmetterli, ne' ai personaggi, marionette dai fili impazziti che imitano una vitale follia ma non la penetrano, ne' tantomeno allo spettatore. Mancano infatti, nella progressione per accumulo elaborata dal regista, la magia, il fluido, l'alchimia, in poche parole l'essenza del cinema, che ha il potere di rendere grande ogni storia e credibile qualsiasi incongruenza. L'atmosfera onirica che permea il racconto non nasce spontanea dai protagonisti e dal loro interagire, ma e' forzata dalla regia e dalla sceneggiatura, con incastri e lune velate tanto banali quanto inutili. L'amour-fou, la fatalita', la liberta', non diventano quindi mai irrazionali e soffocano sotto il peso della insensatezza. Dialoghi risibili ed enfatici, poi, infarciscono amplessi (forse la cosa migliore del film), nudita' e brulli paesaggi, appesantendo la visione e ridicolizzando sul nascere qualsiasi emozione. Tutto risulta percio' gratuito, dagli sviluppi narrativi, con i personaggi sviliti a pedine di un gioco in scatola, allo stile visivo, con una onnipresente fotografia desaturata che finisce per uniformare le immagini appiattendone ogni implicazione. Nonostante la complessita' della costruzione narrativa, con continui rimandi tra i diversi livelli del racconto, lo spettatore, pur spaesato, non resta mai sorpreso e la geometria artificiosa degli improbabili incontri/scontri crea un melodramma raggelato. Ha meno pretese e diverte di piu' una telenovela. Resta la bellezza della protagonista, la neo-diva Paz Vega, unico vero traino a un film che si presenta tanto ambizioso quanto vacuo e irritante.
