Azione, Criminale, Recensione

LOW LIFE

Titolo OriginaleHaryu insaeng
NazioneCorea del Sud
Anno Produzione2004
Durata105'

TRAMA

1957-1975: iniziata la carriera come teppista scolastico, Choi Tae-woong si trasforma progressivamente in criminale di altissimo livello, finendo per intrattenere rapporti con autorità e istituzioni. Anche il volto della Corea sta mutando: dopo la sollevazione degli studenti del 19 aprile 1960, il presidente anticomunista Rhee Syng-man esce finalmente di scena, ma il 16 maggio dell’anno seguente un colpo di stato militare istituisce la terza repubblica, inasprendo le misure repressive e dittatoriali. Il nuovo presidente Park Chung-hee farà definitivamente del nazionalismo e dell’autoritarismo i principi ideologici del suo governo. Intanto Tae-woong ne approfitta.

RECENSIONI

Indirizzo sconosciuto

HARYU INSAENG consegna Im Kwon-Taek al fatuo pastiche mascherato da affresco storico: nell’intento di coniugare il film politico, immerso in acqua di denuncia (la figura di Park, politico elegante e corrotto), allo spioncino intimo e minimalista (il protagonista che corre tra la folla rivoluzionaria, ma per ben altri motivi), propugna invece la cifra dell’indecisa trasparenza. Colpa di un motivo gattopardesco, il persistere del malgoverno malgrado il flusso della Storia, tanto evidente e codificato da smarrire ogni punta d’interesse e di un’ignava scelta stilistica: nell’accortezza di mantenersi sempre leggibile, garantendo un movimentato registro acchiappapubblico (l’action movie strizza l’occhiolino), consegue il risultato di calare l’occhio in una trance ipnotica cui non si riprenderà più. Il regista evira il suo film nella scelta di imbrigliare ogni suggestione, confezionarla in salsa popular senza mai buttarsi a corpo morto nell’opera; questa appare dunque una recita a soggetto filmata palesemente per altri, dalla regia scarsa di arditezze fino alle interpretazioni sul filo del dignitoso, spargendo il viscido lezzo del cinema da esportazione. Se una manciata di sequenze, foriere di autentica concitazione, aggirano il totale fallimento per lunghi tratti la pietanza coreana neanche disturba, semplicemente non ha un sapore proprio; ed infine si arrende alla derisione nello scodellare una pacchiana coincidenza (il parto nel giorno del golpe) sciaguratamente presa sul serio. Ha il fiato corto la cartolina da Seul, scricchiola appena fuori dal salotto del Festival e volentieri la rispediamo al mittente.

 

Così il regista: “Attraversare un’epoca della nostra storia non significa solo far vedere come si viveva in quel periodo ma anche rivelare e far rivivere la realtà del tempo. Spero che le imprese di un uomo che ha fatto ciò che ha fatto per sopravvivere a quel periodo difficile della nostra storia, avranno una ripercussione sulle nostre vite”. Kwon-Taek (“il maestro di tutti noi” come l’ha definito Kim Ki-duk), alle spalle una produzione sterminata (è al suo novantanovesimo titolo), in questo film racconta un pezzetto di recente storia coreana (la caduta del partito liberale e il colpo di stato) con rigida applicazione di un formalismo che “ricorda il realismo socialista” (MB) tentando, con risultati contrastanti, l’affresco grandioso di un’epoca attraverso le vicende di un capo della malavita e della sua famiglia: dell’opera si conservano bene solo stralci, la sua visione d’insieme (presupponendo anche una certa conoscenza dei fatti storici) stenta a mantenere compattezza e tensione. Peccato.

Che cos’è che rende pesante un film, che lo rende legnoso, macchinoso? Vedendo Raging Years alcuni dei suddetti interrogativi si chiariscono, dal momento che in quest’opera si manifestano con evidenza lampante limiti di scrittura, regia e set. Giunto al novantanovesimo film, Im Kwon-taek cerca di raccogliere i fili della sua produzione (soprattutto quella action/gangsteristica) e realizza scrivendola di proprio pugno (diversamente da quanto era successo con The General’s Son e The Taebaek Mountains) una pellicola d’impronta inequivocabilmente storica e autobiografica. Storica nel rappresentare quasi un trentennio di vita nazionale (dalle turbolenze dell’ultima fase della presidenza Rhee all’affermazione del Generale Park Chung-hee, passando per la breve stagione democratica e la dittatura militare immediatamente successiva) e autobiografica nel tratteggiare un ritratto del cinema coreano di quegli anni (schiacciato da una censura inflessibile e inderogabili direttive anticomuniste), anni in cui Im si è trovato ad operare e subire suo malgrado i condizionamenti del regime. Storia e autobiografia costituiscono insomma la materia da oggettivare cinematograficamente e Im fissa come centro di organizzazione un personaggio “di frontiera”: un marginale non emarginato, un malavitoso segnato da una vicenda familiare tormentata (un padre costretto a spostarsi per lavoro e una madre infedele) ma di impressionante lealtà e profonda umanità. Su questo protagonista, il cineasta coreano impernia l’intero progetto narrativo, facendo muovere Tae-woong (l’agile Cho Seung-woo, già impiegato in Chunhyang) in un contesto che di volta in volta si contrae alla sfera familiare oppure si dilata a quella politico-istituzionale, pulsando in maniera sgradevolmente meccanica. Tutto suona pretestuoso ed “emblematico”: dal carattere apolitico di Tae-woong (ad evidenziare un forte limite nell’interpretazione delle contraddizioni ideologiche del reale) all’impegno “oppositivo” del fratellastro Seung-moon (studente costretto alla clandestinità dalla persecuzione politica); dagli ex-gangster che si riciclano come produttori cinematografici agli intellettuali attempati che si ubriacano e si scagliano contro il governo finendo per farsi arrestare poiché sospettati di essere comunisti. Ciò che impedisce a Raging Years di far dialogare drammaticamente storia e Storia, insomma, è lo schematismo e la meccanicità con cui le due dimensioni si alternano e si succedono, creando situazioni di parallelismo, antitesi, analogia e contrappunto. Dinamica culminante nell’assimilazione esplicita di gangster e classe politica in un discorso fatto dalla moglie di Tae-woong (che riporta le parole del fratello Seung-moon), in cui i politici corrotti sono addirittura descritti come peggiori dei gangster perché più falsi e ipocriti. Ai limiti di scrittura si sommano quelli di set e regia: la Seoul degli anni ’50-‘60 ricreata in studio appare di un’artificiosità letteralmente clamorosa e questo, lungi dal creare un’impressione di sottile autoreferenzialità, precipita molto più semplicemente e banalmente nella sciattezza e nella goffaggine. La stilizzazione al posto dello stile. Uno stesso malinteso senso della trasfigurazione estetica permea l’articolazione dello sguardo: punti di vista inutilmente preziosi (dolly a scendere dall’alto, insinuanti carrelli in avanti, false soggettive “raffreddanti”) e un compiacimento un tantino pomposo nelle sequenze d’azione (camera a mano concitata e addirittura ralenti enfatizzanti) intendono infondere alla materia quell’intensità espressiva che le manca intrinsecamente, poiché già sviluppata in forma dimostrativa. Espedienti formali fuori tempo massimo impossibilitati a “lavorare” il cuore del film, un cuore pesante come un macigno e macchinoso quanto solo un film di Im Kwon-taek sa esserlo.