Drammatico, Sky

LOVELY BOY

TRAMA

Nic, in arte Lovely Boy, forma con l’amico Borneo il duo XXG ed è l’astro nascente della scena trap romana. Apatico e disinteressato a tutto – alla famiglia che lo ama, alla fidanzata incinta, ai produttori che lo corteggiano – Nic è perduto in una spirale di stupefacenti e autodistruzione che lo porta a gettare all’aria la sua opportunità. Accolto in una comunità di recupero sulle Dolomiti, nonostante l’iniziale diffidenza prova a disintossicarsi e a ritrovarsi condividendo con altre persone la solitudine che si porta dentro da sempre.

RECENSIONI

In Ultras, la fede (religiosa) del gruppo, in Lovely Boy la solitudine apatica del singolo; nel primo, un microcosmo chiuso e codificato in cui l'individuo - anche quello che spicca per autorità - trova la sua ragion d'essere nelle decisioni e nelle azioni del collettivo, nel secondo, l'individuo totalmente incapace di trovare una ragion d'essere, nemmeno all'interno di un sistema culturale chiuso e codificato. Il secondo film di Francesco Lettieri, pur condividendo con il primo il desiderio di osservare un ecosistema che obbedisce a regole e mode tutte sue, ne è in buona sostanza il controcampo ideale e perfetto: così come in Ultras il tempo del racconto era insieme lineare e circolare, scandito inesorabilmente dalle giornate del campionato di calcio e compresso tra un matrimonio e un funerale atti ad evidenziare, nonostante tutto, la dimensione intima e spirituale del gruppo, in Lovely Boy, la continua alternanza delle due linee temporali, quella dell'autodistruzione e quella della riabilitazione, sono sintomo di un individuo privo di una direzione e privo di qualsivoglia ideale fermo su cui poter contare. 

Perché Lovely Boy è, ovviamente, un film di vuoti, un film sul vuoto. L'inizio, in tal senso, non potrebbe essere più chiaro: altro che matrimonio, altro che unione intima e religiosa (tra marito e moglie, ma anche e soprattutto tra membri che condividono la stessa fede sportiva); qui un movimento di macchina osserva silenzioso una serie di tatuatori al lavoro, intenti a riempire il vuoto della pelle (e quindi della superficie: non c'è nulla, sotto) dei loro solitari clienti. Un vuoto visibile e tangibile dunque, che si rispecchia certo sui corpi e negli spazi (le relazioni, la città, la comunità isolata sulle Dolomiti), ma anche un vuoto linguistico. Nic è qualcosa che per semplificare diremmo trapper, ma che allo stesso tempo non si definisce tale; un lovely boy che può ribaltare di senso il suo nome d'arte con una minuscola incisione della sua pelle, della sua superficie: una "v" che diventa una "n" e un nome che diventa sincera consapevolezza del vuoto. In questo deserto dove non esistono definizioni né significati da scoprire («Mica faccio rap, io. Il rap c'ha contenuti, noi no. Facciamo apposta»), il divario generazionale che in Ultras sfociava nello scontro e poi nella tragedia, qui si limita ad una distanza emotiva tra chi cerca di unire i puntini e trovare un senso alla propria situazione (il racconto dell'aspirante suicida "salvato" dalla droga) e chi invece si abbandona al nulla, canta del vuoto e nel vuoto, vorrebbe solo «stare leggero». Eppure, è una distanza tutt'altro che incolmabile, come dimostra il commovente doppio finale: prima un duetto che fa convivere presente e passato e poi uno sguardo pensieroso, ma sereno di Nic a quello che è già il futuro, che è ancora qualcosa di indefinito e indefinibile, nato dai balletti su TikTok e approdato in televisione; ed è, ancora una volta, un tentativo di dare una qualche possibile forma al vuoto linguistico (mi$$¥pü$$¥xxx - contenelbarmipiacefarelamore; un momento che tra l'altro potrebbe finalmente far riflettere su quanto sia stato avanguardistico il progetto Pop X di Davide Panizza, ma questa è ovviamente un'altra storia) e contenutistico in atto.
Con Lovely Boy dunque, Lettieri decostruisce la classica formula del rise and fall, l'ascesa e caduta di una star che si perde in una spirale di droga e autodistruzione, mettendo invece in scena un personaggio spinto per inerzia in un perenne movimento orizzontale che, nonostante l'altalena temporale del racconto, procede apaticamente, senza uno scopo e senza una vera direzione. E trova, anche grazie ad un bravissimo Andrea Carpenzano, una misura giusta e credibilissima, sincera e intonata, che non si perde nemmeno nei momenti più lisergici e stravaganti.