TRAMA
Walter, un professore annoiato del Connecticut, deve andare a New York per una conferenza; nel suo appartamento di Manatthan trova, però, una coppia di immigrati che vivono lì da un po’: sarà un incontro che gli cambierà la vita. A suon di tamburo.
RECENSIONI
L'ospite inatteso è un film a metà: meglio, infatti, considerarne solo la prima, durante la quale cresce. McCarthy costruisce una vicenda fatta di niente e le fornisce un'impalcatura narrativa in cui l'assenza pressoché totale di azione, di "fatti", è compensata dalla precisione quasi geometrica di riferimenti con cui ci racconta una lieve e malinconica umanità.
Tutto si gioca sui rapporti umani, su un incontro e i suoi effetti: quello, freudianamente perturbante (l'improvviso svelarsi dell'ignoto nel noto), tra Walter, un metodico professore universitario del Connecticut che tiene da vent'anni sempre lo stesso corso, e Tarek, un immigrato siriano che di Walter ha affittato, senza che lui lo sappia, l'appartamento di New York. Tarek, per Walter, è l'Altro da sé: un Altro ricco di sfumature, che si radica insieme nel tempo, in un passato doloroso che si dà sempre nel presente, insuperabile, quasi figura solida nell'aria - i continui, ma appena accennati, riferimenti alla moglie morta - e fuori dal tempo, in una condizione esistenziale di non-vita per cui l'agire umano è ridotto a un programma rigido e senza possibilità di fuga; Tarek-Altro è, allora, l'incontro con la Vita, che si offre nel recupero della comunicazione e della parola rispetto al silenzio e alla scrittura, dell'emozione fluida, senza forma né pudore, rispetto al pensiero che determina e distingue, dell'aiuto e della partecipazione rispetto all'isolamento e al rifiuto (emblematica del percorso evolutivo di Walter è, a questo proposito, la differenza tra il rifiuto secco ad accettare in ritardo un compito da uno studente che "aveva avuto dei problemi", e la dedizione appassionata per la causa di Tarek). Tramite l'Altro la Vita è redenta sia dal Niente, fuori dal tempo, che dalla Morte, nel tempo, dualità di senso, questa, che è conservata nei tanti elementi che della redenzione sono i signficanti, come la casa o il rapporto oralità/scrittura; valga per tutti l'esempio del tamburo di Tarek, nelle cui sonorità autoreferenziali, prive, cioè, di una determinazione esterna che possa renderle comprensibili al pensiero, l'autenticità della Vita si svela tanto come Essere atemporale, ritmo inarrestabile, dionisiaco, senza forma, quanto come liberazione tutta temporale dalla Morte: il tamburo entra, allora, in rapporto oppositivo con il piano, che della Morte è il simbolo (la moglie di Walter era una pianista) e il fantasma più ossessivo (i tentativi continui di Walter per imparare a suonarlo sono l'esempio più esplicito di questo "vivere nella Morte"), e lo supera, ponendosi a sua volta come simbolo di una (nuova) Vita, che si tiene sempre stretta tra le mani (Walter dopo poco inizia a portarlo sempre con sé). In queste simbologie sottili, ma precise, tra significati e significanti, il film trova il suo punto di forza e la sua concretezza.
A un certo punto però il film precipita su sé stesso e si ha l'impressione che il regista perda i fili del discorso; l'assetto strutturale viene tradito e l'azione entra in scena (l'arresto di Tarek): L'ospite inatteso da film di suoni e atmosfere surreali, diventa film di fatti, che sembrano inseriti solo per riempire un vuoto: la trama dei rapporti si complica in maniera del tutto insensata con l'ingresso di un altro personaggio (la madre di Tarek) la cui presenza sembra far avviare la vicenda verso un conclusivo amore consolatorio fra i due signori, per fortuna risparmiatoci; il personaggio di Zainab scompare e si tenta, soprattutto, di arricchire l'opera di riferimenti sociali espliciti che faticano ad armonizzarsi con la dimensione sottilmente psicologica del resto del film, oltre a dargli, retrospettivamente, un carattere pedagogico un po' fastidioso: sembra di assistere, cioè, a una sorta di tirocinio di quanto si è appreso in una parentesi dalla normalità.