
TRAMA
Nel 1940, Winston Churchill, da pochi giorni Primo ministro della Gran Bretagna dopo le dimissioni di Neville Chamberlain, deve affrontare una delle sue prove più turbolente e definitive: decidere se negoziare un trattato di pace con la Germania nazista.
RECENSIONI
Bentornato Joe Wright. Lo avevamo lasciato nell’Isola Che Non C’è a leccarsi le ferite di uno dei massimi disastri cinematografici del nuovo millennio (Pan, un fallimento sotto ogni punto di vista), a incassare no (la regia di Emperor era cosa fatta, ma, stante il flop...) e a prospettare catastrofi («Temevo che non avrei mai più diretto un film»). Darkest Hour ce lo riconsegna più in forma che mai, di nuovo in groppa a un progetto che lo rappresenta in toto. Il Churchill di Wright è la sua icona in opera, fin dall’inizio: se la bombetta sullo scranno è una sineddoche, la parte per il tutto, nella camera da letto a illuminarne il volto è la fiamma con la quale, al buio, accende il suo famoso sigaro; l’apertura delle tende funge da definitivo svelamento del sembiante del personaggio e di Gary Oldman che lo incarna. Nello stesso momento in cui assumiamo l’attore inglese nei panni dello statista ce ne dimentichiamo, perché Oldman vi si annulla e il suo cessa di essere un travestimento (il miracoloso make up è dell’artista Kazuhiro Tsuji, fuggito un lustro fa da Hollywood per consacrarsi alla scultura, richiamato nel mondo del cinema per questa occasione). Il Winston Churchill di Darkest Hour è un concentrato della sua leggenda, la sua caricatura e, nello stesso tempo, il personaggio di un racconto che si vuole umano [1]: mangia molto, beve molto, fuma molto, caga, biascica, tossisce, urla, usa un gergo intimo con la moglie. La percezione che se ne ha all’esterno (egocentrico, ubriacone, pericolosamente umorale) si riflette nella rappresentazione del suo privato: il politico è la maschera di un essere imperfetto, con le sue debolezze, i suoi dubbi, i suoi vizi, la sua voracità (allora si dà conto della preparazione del suo pasto, del suo beveraggio), le sue ombrosità, i suoi sbotti, la presunta psicosi (una vena di follia che risalirebbe ai genitori), il suo rosario di fallimenti passati con il quale fare i conti.
[1] Così Ilaria Feole nella sua recensione su Film Tv (n. 3/2018):
«Winston Churchill è un’invenzione, una fiaba. La favola di un primo ministro che, durante la guerra e in piena emergenza, scappa dall’autista e prende la metropolitana per parlare col suo popolo, e per percorrere una sola fermata impiega sei minuti: implausibile? Certo, perché il cinema di Wright non ha alcun interesse per la verità, per la concretezza dei fatti. Ciò che a Wright interessa, e che ben conosce, è il peso specifico delle immagini»
L’umanità di Churchill è materia ribollente e insistita perché premessa indispensabile alla comprensione dell’oggetto dell’indagine del film ovvero la fonte di quella retorica nella quale era imbattibile. Perché il Churchill uomo, nel film di Wright, è soprattutto il vettore (in)credibile della sua affabulazione, di quelle parole vibranti che seppero trascinare e motivare un’intera nazione. Il soggetto de L’ora più buia non è dunque il Churchill statista, ma la forza della sua arte oratoria; non la Storia che è sui libri, ma il suo fantasioso making of; non il Winston pubblico, ma il dietro le quinte che lo avrebbe determinato, che ne spiegherebbe il carisma. Non a caso assume rilievo la figura di Elizabeth, la sua segretaria-coscienza, non a caso la scena del discorso alla Camera (un’arena in cui si lotta con le parole) si fonda sul montaggio alternato con quella in cui la dattilografa scrive l’allocuzione sotto dettatura: quella macchina da scrivere ripresa dal basso, a riportare il fluente ticchettare dei tasti su quei fogli che avrebbero cambiato la Storia, è la traduzione visiva dell’eloquenza churchilliana nel suo farsi (ricordate Espiazione?). Il film sottolinea questa caratteristica attraverso sottilissimi dettagli: la luce rossa, che si accende per dare il via al discorso radiofonico, illumina il volto del protagonista e si riverbera alla fine nell’occhio di un soldato ucciso. Per dire, mostrandolo, della sostanza reale dalla quale partivano quelle argomentazioni e del perché toccassero tanto chi le ascoltava, del perché Churchill abbia saputo risvegliare l’orgoglio di una nazione (esempio, tra i molti possibili - un occhio alla strepitosa sceneggiatura di Anthony McCarten -, di pura invenzione wrightiana).
Per raccontare tutto questo Wright evita accuratamente le pastoie del biopic: L’ora più buia distilla il meglio di quel genere e lo mescola al dramma e alla commedia (i duetti coniugali, gli scambi col re, l’umorismo sempre acceso). Soprattutto, come al solito, il regista imbriglia il racconto a una rappresentazione quintessenzialmente cinematografica, come la figura di Churchill in bilico tra Storia e leggenda, verissima (i filmati di repertorio all’inizio) e fintissima (il melodramma: Elizabeth in lacrime batte a macchina quella che, nei fatti, è la condanna a morte di un fratello al fronte). E Wright è sempre Wright: qualunque cosa faccia, anche un’opera biografico-storica come questa, la trasforma in un tour de force registico, ne fa un film action. Così Darkest Hour è sempre in movimento, con una macchina da presa indefessa e cinetica (la plongée all’inizio, quasi una dichiarazione di intenti), con i movimenti dei personaggi coreografati, il solito balletto in cui le figure assumono risalto nello spazio scenico (le scale, un cunicolo, l’aula del parlamento), un movimento sottolineato dalla sublime, avanguardistica persistenza delle musiche ossessive di Dario Marianelli - come in Espiazione, come in Anna Karenina - , che conferisce al film la sua temperatura. Una maratona di stile tanto più clamorosa, nella sua perfetta resa dei motivi dell’opera, se si tiene presente che, come detto, questo è e rimane un film che sulla parola si fonda (anche il finale lo ribadisce riportando la famosa frase di Edward R. Murrow, resa famosa da JFK «Ha mobilitato la lingua inglese e l’ha spedita in battaglia»)
A Wright non interessa consegnare un modello cinematografico riconoscibile, ma muoversi liberamente su più piani: così non mette mai da parte l’approccio teatrale, con sipari classicamente frontali (l’incontro tra Churchill e il re) e dà risalto a un apparato scenico che è parte integrante di uno sguardo che tutto lo abbraccia, in cui quella scenografica è una funzione viva ed espressiva, mai meramente decorativa; e nello stesso modo eloquente usa le luci (per tutte la scena in cui il re va a trovare Churchill per garantirgli il suo appoggio: nell’ora più oscura la scena è illuminata soltanto da una lampadina nuda, a restituire i personaggi nella loro fragilità, nel loro terrore). Il film non si impiglia mai nelle barbose didascalie che dovrebbero illustrare il complesso contesto storico, ma fa sì che lo spettatore non perda mai il punto della situazione attraverso una dialogistica che si fa illustrazione concisa, mai pedante, sempre perfettamente motivata con quello che è l’obiettivo drammaturgico (Churchill che spiega a Elizabeth la situazione a Dunkerque), giocando con gli ammicchi e il sentimentalismo del cinema classico (quella discussione nella metro sembra tratta da un vecchio film RKO). Con la stessa mirabile sintesi Wright rende la realtà storica con sguardo obliquo, la ferma in quadri folgoranti (il bambino che guarda il passaggio dell’aereo e lo cattura nella sua mano), la illustra con i carrelli sulle strade di Londra, solenni ralenti che dipingono un clima. Perché è con la macchina da presa che il cineasta racconta le cose: la sua grandezza sta nel non cadere mai in una logica di servizio, di lavorare ogni sequenza in modo anti-accademico, inventivo, conferendole un carattere peculiare che ne giustifichi la visione. Già fremo per il prossimo adattamento del bellissimo romanzo di John Williams Stoner, con Tommy Lee Jones e Casey Affleck.

IL PALCOSCENICO DELLA STORIA
Tempori serviendum est
(Bisogna essere servi delle circostanze)
Marco Tullio Cicerone, da Epistulae ad Atticum, X, 7, 1
L’ora più buia è un’orazione civile. Un’orazione civile deve muovere all’azione. Ma deve farlo rispetto a un luogo. Si domanda infatti Pasquale Vitagliano: «Può esserci poesia civile senza terra di appartenenza? Senza un legame intimo, materiale ed etico, con il territorio sul quale si è nati?». Un luogo diventa civile solo quando la Storia di quel luogo, tutta la storia di quel luogo, si riflette nelle storie e nei vissuti personali e ne viene, a sua volta, riverberata. Ed è quello che succede nel film di Joe Wright che è l’altra faccia della medaglia di Dunkirk di Christopher Nolan, quella che mostra l’insediamento di Winston Churchill come Primo ministro del parlamento britannico e del suo ordine di ritirata, oggi conosciuto come operazione Dynamo e celebrato dagli inglesi come una vera e propria vittoria sul campo di battaglia, che portò in salvo 126 mila uomini bloccati sulla spiaggia di Dunkerque. L’ora più buia è un film retorico, termine temuto nel momento in cui lo si adopera per svolgere funzione attributiva a causa delle incrostazioni di senso spregiativo sedimentatesi attorno ad esso.
La retorica cui farò riferimento non è dunque da intendersi in termini di “enfasi” o “vuota ridondanza”, ma neppure come arte del ben parlare, né arte di persuadere ma, secondo la definizione aristotelica, come riflessione sul discorso persuasivo o, più esattamente, su «ciò che può risultare persuasivo in ogni argomento». Tra i tanti meravigliosi effetti che si possono ottenere grazie alla parola pronunciata in pubblico, Cicerone, teorico dell'arte oratoria, pone come primo elemento la possibilità di guidare e modificare i pensieri e le decisioni collettive. Il perfetto oratore è colui che, capace di adattarsi alla situazione contingente, garantisce a se stesso il prestigio personale («la persuasione si realizza per mezzo dell’ethos quando il discorso è detto in modo da rendere degno di fede colui che parla» - Rhet. 1365 a 4-13) e agli altri la salvezza, e gli altri possono coincidere con l’intero Stato. A rendere degno di fede l’oratore è il modo in cui il discorso è detto. La sua affidabilità è dunque un risultato, non una precondizione, un effetto che l’oratore deve riuscire ad ottenere per mezzo del suo discorso. Per Aristotele, infatti, non è la fama dell’oratore a rendere credibile il discorso, ma è il discorso stesso, o meglio il modo in cui il discorso è detto. La dimensione della verità è continuamente messa in gioco in tutta la sua difficile (ma ineludibile) relazione con la dimensione del persuasivo. L’ethos dell’oratore è il prodotto di una strategia discorsiva, la costruzione della faccia che l’oratore intende presentare al pubblico; come diceva Groucho Marx, «se riesci a fingere la sincerità, sei a posto». Persuadiamo attraverso il discorso quando mostriamo il vero o ciò che appare tale a partire da ciò che è persuasivo in relazione a ciascun caso. La retorica per Aristotele non è quindi l’arte di persuadere, ma il tentativo (come tale sempre fallibile) di individuare una strada per muoversi nel terreno impervio e scivoloso del possibilmente persuasivo, perché non esiste un «persuasivo in sé», ma «ciò che è persuasivo è sempre persuasivo per qualcuno» (Rhet. 1356 b 28). Qui emerge un aspetto di cruciale importanza per comprendere la specificità del punto di vista retorico: il primato dell’ascoltatore, fare dell’ascoltatore il motore di ogni processo di significazione. Per riuscire in questo il discorso deve dimostrarsi capace di suscitare un'intensa emozione e una totale partecipazione affettiva, cioè creare pathos. Il ricorso alle emozioni non è un generico appello emotivo, ma una persuasione realizzata «per mezzo degli ascoltatori, quando essi sono condotti dal discorso a [provare] un’emozione. I giudizi, infatti, non vengono formulati allo stesso modo se si è addolorati o contenti, se si ama o si odia» (Rhet. 1356 a 14-15). Quanto detto investe il film Wright tanto in termini diegetici quanto dal punto di vista della costruzione filmica.
Per quanto riguarda la fabula prima ancora di vedere in scena Churchill, la cui presenza è evocata attraverso l’assenza (il suo posto vuoto al parlamento), conosciamo Elizabeth Layton, la ragazza che dovrà assisterlo in veste di segretaria personale; un collaboratore la istruisce su tutta una serie di norme redazionali a cui dovrà scrupolosamente attenersi nel corso della battitura dei discorsi dell’allora non ancora Primo ministro. E quando finalmente la vediamo al lavoro, a tu per tu quindi con Churchill, capiamo subito come ogni minuto da lui pronunciato nel corso suoi interventi sia frutto di ore di stesura; ogni testo è rifinito più e più volte, sempre soppesando con sensibilità parole, frasi, ritmo. Un’attenzione al discorso che, nel ’53, non a caso verrà premiata con il Nobel per la Letteratura; un riconoscimento che abbraccia tutti i suoi scritti, con particolare attenzione per La seconda guerra mondiale (un’opera immensa che ancora oggi rimane un testo fondamentale se si vuole conoscere da vicino e a fondo cosa furono quegli anni), ma anche «la brillante oratoria in difesa ed esaltazione dei valori umani». Del resto, in un saggio redatto appena ventitreenne, Churchill scrisse: «La capacità retorica non è un dono né un’acquisizione, ma è qualcosa che dev’essere coltivato. L’indole e il talento tipici dell’oratore devono essere innati. Il loro sviluppo è favorito dalla pratica». E una volta ottenuto l’onore ma soprattutto l’onere, visto il momento, della più alta carica politica Churchill ha la consapevolezza del proprio ruolo, di essere un faro e quindi di doversi dimostrare capace di convogliare tutte le forze di un popolo in una resistenza estrema, miracolosa, contro l’avanzata nazista in un’Europa ormai da tempo annichilita e senza più alcuna difesa. Ma soprattutto ha la consapevolezza di come la Storia fosse in ascolto delle sue parole e a dimostrazione c’è il suo celebre discorso al Parlamento; un esercizio retorico di sapore shakespeariano: «Dico al Parlamento come ho detto ai ministri di questo governo, che non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo di fronte a noi la più terribile delle ordalìe. Abbiamo davanti a noi molti, molti mesi di lotta e sofferenza. Voi chiedete: qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una parola. È la vittoria. Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c’è sopravvivenza». Parole, queste pronunciate da Churchill, in cui risuona uno dei temi chiave dell’oratoria civile e cioè il sentimento di appartenenza alla Storia di un luogo, così come si è dipanata nel tempo, e alla volontà di perpetuarla nel futuro. Ragionando invece in termini di discorso registico, come fa notare Ilaria Feole su Film Tv, «fin dalla prima, turbinosa inquadratura, dopo la breve introduzione di repertorio, sappiamo che siamo in un film di Joe Wright: l’aula del parlamento britannico […] è un palcoscenico teatrale». Al regista non interessa realizzare una diligente ricostruzione storica; attraverso l’esasperazione dei toni e una narratività fortemente performativa, senza alcuna paura di scadere del macchiettistico, ciò che a lui preme è cogliere il senso profondo della retorica churchilliana, il bisogno, come abbiamo visto, di «risultare persuasivo» perché allora era la vita in gioco. C’è un momento, il più criticato dai detrattori del film, che permette di cogliere appieno il senso dell’operazione di Wright, quello dove Churchill decide, senza preavviso alcuno, di raggiungere il Parlamento in metropolitana e parlare così, faccia a faccia, al popolo inglese. Qui storia drammatica, tempo storico ed emozione personale si trovano strettamente congiunte: il film (capace tanto quanto il suo protagonista di adeguarsi alle circostanze) ci si rivolge come il Primo ministro sta facendo agli inglesi (a dimostrazione che non ci sono discorsi indipendenti da chi li pronuncia e da chi li ascolta). Un momento di forte pathos in cui ci riflettiamo nel sentimento che stanno vivendo personaggi di fronte a noi; è la prova realizzata che noi, come loro, siamo «condotti dal discorso a provare una certa emozione» (Rhet. 1356 a 14-15). È su questa inclusione che si basa, d’altra parte, il principio fondamentale della retorica aristotelica secondo cui un discorso risulterà tanto più persuasivo quanto più riuscirà a realizzare nell’ascoltatore (spettatore) un apprendimento veloce e piacevole. Del resto come sosteneva proprio Aristotele l’uomo è mente che desidera e desiderio che ragiona.

Il coevo Churchill (e lo stesso anno è uscito anche Dunkirk), che racconta anni successivi, non restituisce allo stesso modo la grandezza e la complessità della figura ma ne condivide (insieme al dettaglio sulla preparazione dei discorsi e al carattere della nuova segretaria) la statura dell’attore protagonista: fra Brian Cox e Gary Oldman, è una gara di bravura. Rispetto al regista Jonathan Teplitzky, Joe Wright ha il talento al servizio del testo, per esaltarlo con quelle sue invenzioni espressive che, da sempre, elevano la corretta trasposizione, circondandosi di altre eccellenze cui affidare le sue dissonanze, che sia il magnifico studio cromatico del direttore della fotografia Bruno Delbonnell, che richiama l’oscurità del titolo privando di vivacità i colori o il commento sonoro di Dario Marianelli, con note che cantano come voce solista e, fra pianoforte e archi, aggiungono toni anche ilari. Restano impressi, ad esempio, i carrelli laterali di Wright senza sonoro sul popolo inglese mentre Churchill passa in automobile e la bizzarria della ripresa dall’alto sui francesi come impossibile soggettiva dall’aereo; ma la vera differenza la fa la scrittura di Anthony McCarten (La Teoria del Tutto): almeno fino alla parte finale, è drammaturgia da opera che rimarrà nel tempo, per dialoghi, crucci, dinamiche politiche, analisi e descrizioni, citazioni e memorabili scontri verbali. Rende evidenti, e non è cosa da poco, le ragioni per cui Churchill fosse e sia ancora considerato un gigante: contro tutti invitò a non arrendersi, fra venature da romanticismo e tattiche da leone predatore, e il testo è magnificamente empatico, nel momento in cui fa vivere allo spettatore i suoi stessi dubbi. Il personaggio, inoltre, serve il tema prediletto di Wright sulla vita come rappresentazione (i politici inglesi che definiscono Churchill come un attore cui piace il suono della propria voce). La parte finale, invece, veleggia su populismo e arringhe che non erano necessarie: chiuso fra le quattro mura del potere, McCarten era già riuscito a condividere quanto il primo ministro riuscisse a ispirare popolo e politici, non c’era bisogno della scena plateale in metropolitana con citazione di Orazio né dei sermoni con modi da Spartacus nelle camere del governo. Dedicato a John Hurt, cui fu proposta la parte di Neville Chamberlain.
