Drammatico

L’ORA DI PUNTA

TRAMA

La scalata sociale di un agente della guardia di finanza, da corrotto a palazzinaro corruttore._x000D_

RECENSIONI

Fischiatissimo alla recente Mostra del Cinema di Venezia, il nuovo film di Vincenzo Marra rappresenta, involontariamente, un esempio perfetto di cinema “alt(r)o” che fallisce nel tentativo di “aprirsi” ad quell’ipotetico vasto pubblico che una produzione targata Rai Cinema ambisce ad avere, di piegare una forma contrassegnata dal rigore e, dunque, “rigida” e difficilmente malleabile, alle esigenze produttive e all’obbligo dell’immediata leggibilità.
Come “racconto morale” suddiviso in tappe, sorta di parabola biblica ma senza ravvedimento/redenzione, il film funziona: Marra, anche responsabile della sceneggiatura, riesce con efficacia a narrare la scalata sociale e la corrispondente vendita dell’anima al diavolo del “povero” protagonista, sempre più marionetta depersonalizzata, sempre più”oggetto”, automa senza anima, così si spiega la totale inespressività e la fissità dello sguardo di Michele Lastella (che non è Lawrence Olivier, ma non doveva esserlo…). Il regista isola i segmenti decisivi di tale percorso di perdita di sé per il denaro, li accosta anche brutalmente, rischiando a volte il ridicolo (come nel tanto sbeffeggiato stacco galleria d’arte/camera da letto). In questo senso, il film è esattamente l’opposto di una fiction televisiva (vedi il piatto Il dolce e l’amaro), con i suoi tempi dilatati ed il rifiuto dei tempi morti.
Tuttavia, ad una così evidente scarnificazione del linguaggio non corrisponde una adeguata, ed equivalente, messa in scena “in levare” e dei dialoghi all’altezza: Marra accumula simboli di facilissima lettura (il crocifisso appeso alla porta “chiusa in faccia” al padre ritratto in una foto…), si abbandona a parentesi sentimentali inutilmente iterate e malissimo scritte (l’amata che ritorna dopo essere stata tradita, che teme di subire un secondo tradimento che regolarmente arriva…) ed è troppo diretto e manicheo nel rendere visivamente la contrapposizione tra i due “mondi” (quello di provenienza e quello al quale aspira) del protagonista. La dissolvenza incrociata interno borghese/facciata di un palazzaccio di periferia è francamente imperdonabile e troppo “facile”, anche per un racconto che si presenta come piano e semplice, di immediata decifrazione.
In definitiva, si esce dalla sala con la nettissima impressione di aver assistito alla proiezione di un’opera irrisolta che è il precipitato di una sorta di adynathon filmico: soggiacere alle regole del “prodotto vendibile” pur restando fedeli al rigore delle opere, più libere e meno “studiate”, del passato. Oggi, in Italia, sembra impossibile riuscirvi ed è questo che il film di Marra, suo malgrado, ci dice, ci segnala.

Dopo l'intenso Tornando a casa, Vincenzo Marra si era perso nei luoghi comuni con Vento di terra. All'opera terza continua su questa strada. La sua visione non è televisiva, come in molti hanno detto, anzi è molto rigorosa dal punto di vista cinematografico, con una messa in scena secca ed essenziale. Ciò che raffredda progressivamente il coinvolgimento è la banalità del percorso del protagonista: un gelido calcolatore disposto a tutto pur di vedere realizzati i suoi sogni di agiatezza e potere. La prima parte, con l'esperienza lavorativa nella Guardia di Finanza, è efficace e senza sbandamenti, poi, con l'entrata in scena di un'eterea Fanny Ardant, comincia un tragitto rodato dove all'ascesa sociale si intuisce subito che seguirà una caduta agli inferi. Senza tesi da dimostrare, visto il finale aperto, ma con un itinerario così consolidato da risultare prevedibile. La sensazione è di vedere le istituzioni e i giochi di potere così come ci si immagina che siano, a causa di una meccanicità che fa sembrare gli eventi privi di approfondimento. Si arriva così a una parte finale in cui franano i caratteri e le psicologie cedono al luogo comune: l'amata vilipesa e svenduta; l'amante trattenuta senza entusiasmi; gli ostacoli superati con la forza e la corruzione. A risultare particolarmente didascalici sono, più che i dialoghi, alcuni gesti, come il passaggio dell'anello dall'amata all'amante o il modo sbrigativo con cui si succedono difficoltà e relative soluzioni. Resta comunque un tentativo, anche se non particolarmente riuscito, di parlare della contemporaneità. Tutti bravi gli attori, dal protagonista Michele Lastella, rigidamente in parte, ai carismatici comprimari. Sempre affascinante la Ardant, ma prigioniera di un ruolo, (non la aiuta il fatto di non essere doppiata) che finisce per sfiorare il ridicolo. Eccessivi, comunque, i fischi della stampa al festival di Venezia.