TRAMA
1957. I Whitaker conducono la loro esistenza a Hartford, Connecticut, nell’osservanza delle regole sociali che sovrintendono alla comunità di cui fanno parte. Ma qualcosa romperà l’equilibrio.
RECENSIONI
Una casa con giardino curato, il lattaio, uno scuolabus che percorre il viale, la signora Withaker che accoglie il marito sulla porta di casa, gli abiti inamidati, la cameriera di colore: tutti i topoi sono rispettati nella descrizione della vita borghese di questa famiglia media americana, ma Todd Haynes non si limita a prendere un intero filone (il melodramma americano anni Cinquanta, quello che aveva in Douglas Sirk il suo nume tutelare) e a ricalcarlo alla lettera: lo piega alle sue esigenze e vi opera chirurgicamente all'interno. Con rara intelligenza, il regista non si limita all'esercizio di stile ma spingendo il parametro alle estreme conseguenze, lo decritta. Tutto quello che, negli anni in cui questo genere di film spopolava, non si poteva dire, che rimaneva studiatamente inespresso, qui viene enunciato alla lettera e con la stessa casta resa che ci sarebbe aspettati da un film di quell'epoca. Ecco dunque che l'omosessualità del marito viene palesata nella scena del bacio (e non a letto, come si farebbe oggi), ecco che il problema sessuale manifestatosi viene risolto come "malattia da curare" con tanto di psicoterapeuta, ecco che l'infatuazione della signora Withaker per l'uomo di colore trova il suo culmine nel ballo nel locale per soli neri. Far from heaven non è solo, dunque, un film che riapplica un corpus di stilemi, ma anche, e soprattutto, il tentativo riuscito di usare un genere, di omaggiarlo e attualizzarlo, restituendo, con la coscienza di oggi, tutta la portata di un'idea di cinema: solo en passant si dica, dunque, della meravigliosa fotografia di Ed Lachman, del lavoro sopraffino dell'art direction, della regia filologica, degli attori meravigliosi. Pur avendo tutti i caratteri dell'operazione, Far from Heaven non li pone mai in primo piano, funzionando magnificamente anche a livello narrativo e drammaturgico e riuscendo a far passare, dietro il suo indubbio intellettualismo (non manca a chiudere, ovviamente, l'ormai in disuso The End), anche un livello di militanza cinematografica e sociale.
È un approccio molto intellettuale quello di Todd Haynes nel nuovo lungometraggio "Far from heaven". Presenta infatti alcuni dei più classici e saccheggiati temi cinematografici e li ripropone facendo il verso ai film di Douglas Sirk degli anni cinquanta. Quelli tutti emozioni contratte, foglie autunnali in Technicolor, gonne a palloncino, cappellini impossibili, sorrisi di facciata, villette a due piani immerse nel verde, torte di mele appena sfornate. Le apparenze ovviamente ingannano, la vera felicità non è quella che si ostenta, diventa quello che sei: il cinema ha sempre parteggiato per una libertà di pensiero e di costumi, forse proprio per dare al pubblico la possibilità di vedere realizzato, in un gioco un po' perverso e frustrante, ciò che la quotidianità negava. E così la moglie perfetta Cathy Whitaker, sposata al marito perfetto Frank Whitaker, deve fare i conti con l'urgenza delle pulsioni. Il marito preferisce i giovanotti e lei si ritrova innamorata del sensibile giardiniere nero. Due dei massimi tabù dei perbenisti anni cinquanta, quello razziale e quello sessuale, vengono quindi affrontati nel film di Haynes attraverso una rilettura post-moderna. È curioso come la novità sia nel recupero, ma riciclare con pacatezza e intelligenza permette di attualizzare il messaggio. Julianne Moore, giustamente premiata a Venezia per la sua interpretazione, si conferma una delle attrici più brave della sua generazione. Perfetta nel mostrarsi perfetta e con un sorriso di disarmante tragicità. Ma fondamentali, per la creazione dell'atmosfera old-style, si rivelano anche costumi, scenografie e fotografia. Ovviamente tanta cura formale rischia di cadere nel citazionismo gratuito ed infatti il film non infiamma come i melodrammi a cui si ispira. Forse perché abbandona l'ironia della prima parte per prendersi sul serio, finendo così per diventare un ibrido, non così dissacrante da divertire, ma nemmeno così doloroso da commuovere.
Il film di Todd Haynes può essere considerato un esempio di metacinema in almeno due accezioni del termine. Alla ripresa, filologicamente irreprensibile e mai pedante, delle categorie melodrammatiche classiche si affianca, in Lontano Dal Paradiso, una sagace riflessione sul ruolo che le opere (d'arte, e non solo) basate principalmente sulla componente visiva possono giocare nella società degli uomini, in senso lato. Nel mero intreccio sono presenti varie fonti d'immagini, classificabili in base alle diverse tecniche ri-produttive utilizzate. Gli schermi televisivi, le foto sulla gazzetta locale, le pubblicità incorniciate (sorgenti meccaniche d'immagini serialmente riprodotte) sono l'araldo dell'opinione pubblica, la fervente espressione (l'ellittica riprovazione) di ciò che deve essere considerato (a)normale; le opere d'arte (soprattutto contemporanee), espressioni uniche per forma e contenuto, frasi di una lingua che pochi conoscono (e per lo più a livello inconscio), veicolano messaggi segreti e inconfessabili, irridono le barriere sociali, permettono di scorgere una verità depurata dall'ipocrisia. Fra questi due estremi si collocano gli specchi, che catalizzano e riflettono i cambiamenti (la seduzione dopo la scena in piscina), e il cinema, luogo ideale e fisico di aspra contesa fra brutalità quotidiane e tormenti privati. Il cinema di Hartford è il teatro (di guerra) nel quale si svolgono due eventi fondamentali, la 'prima volta' omosessuale di Frank e il primo addio di Cathy e Raymond, due facce dello stesso outing (privato e riuscito nel primo caso, pubblico e frustrato nel secondo); inoltre, i film proiettati nella sala [ad esempio Three Faces Of Eve (La Donna Dai Tre Volti), storia di una personalità in frantumi in un milieu borghese e psicanalitico] alludono ai drammi (in)espressi dei personaggi. La contesa iconica, che prosegue oltre 'la fine' della vicenda narrata, non ha un vincitore; a essere certificata, piuttosto, è la superiorità delle immagini sui loro autori. Come dice Raymond parlando dei quadri, l'immagine è gioco di linee e colori, superficie risolta in sé, bellezza splendidamente piatta in cui la forma è il contenuto, l'opposto di quella dissociazione pensieri/parole che caratterizza l'uomo. L'immagine bidimensionale e statica conosce la profondità di campo come illusione, non come fonte di gravi minacce (la telefonata interrotta dalla comparsa del marito), e non può cambiare senza mutare completamente la propria natura (proprio questo è il problema di Cathy, che tronca l'amore nascente per l'insensata volontà di salvare un rapporto già naufragato). Lontano Dal Paradiso propone una mediazione (im)possibile fra due universi paralleli e difficilmente comunicanti: nella prima immagine, un tessuto di fili rossi (pura forma, colore puro) si trasforma in un trionfo autunnale[1]; i passaggi fra le sequenze sono segnati (dissimulati) da sfumature cromatiche e sonore che dissolvono le ombre del reale in un'onda che mette la sordina al piano figurativo; l'inquadratura finale riporta allo splendore disegnato dell'incipit. Non sempre il cinema è specchio della vita e/o dell'arte: a volte è ponte fra le due.