Drammatico, Recensione

L’ODORE DEL SANGUE

NazioneItalia/ Francia
Anno Produzione2004
Durata100'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo di Goffredo Parise
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Carlo e Silvia sono marito e moglie da molti anni. Lui ha una relazione con la giovane Lù che non nasconde alla moglie ma quando Silvia gli confessa di averne cominciata una con un giovane, l’uomo va in crisi.

RECENSIONI

Martone scandaglia il fondo limaccioso del ménage di un matrimonio borghese: “niente esclusive”, la coppia è aperta ma il libertinaggio autorizzato si scontra con le ossessioni di Carlo, un uomo che vede per la prima volta la compagna liberarsi concretamente dai vincoli psicologici che la tenevano legata a sé e che si sente tagliato fuori da una tresca che Silvia vuol condividere con lui fino a un certo punto. Liberamente tratto da un romanzo postumo (d’ispirazione autobiografica) di Goffredo Parise, L’ODORE DEL SANGUE, altri occhi spalancati chiusi sulle dinamiche del sentimento di coppia, rappresenta il conflitto di un uomo con la propria ipocrisia amorosa che prende le vie del confronto con un fantomatico concorrente: lo scontro con il rivale è generazionale (la moglie ne sottolinea il vigore e la forza quasi a voler rimarcare la differenza col maturo consorte), sessuale e politico (se i coniugi costituiscono un esempio fin troppo paradigmatico di raffinata coppia progressista, l’infatuazione della donna ha per oggetto un fascitello violento e prepotente). Il film, nella descrizione di un rapporto inconsueto e delle ossessioni che ne fanno contorno, se ha dalla sua un certo rigore registico e a tratti una tensione palpabile, molto ben sorretta dai tre attori principali, dall’altro sconta male la sua discendenza letteraria (molti passaggi di scrittura “scritta” contribuiscono alla discontinuità di un registro, che si tenderebbe a mantenere su un piano realistico) e non sa evitare la riverenza a certi stereotipi da malsano quadretto “moraviano” che puzza un po’ di naftalina; l’esperienza di inviato di guerra di Carlo, poi, al centro del libro che sta scrivendo, sembra inserirsi nella narrazione come un capitolo isolato (Parise fu corrispondente da diversi fronti bellici) e poco connesso al resto, e se la parte finale è dilatata in eccesso va rimarcato anche che, nel tentativo di disegno di un contesto storico e di un ambiente, Martone capitombola spesso e volentieri (le serate da terrazza sinistrorsa sono di inaudita piattezza). Manca, mi pare, quella dimensione dolorosa, quel fondo di sincerità tragica che si riscontrava nelle sue opere precedenti e questa lacuna si manifesta ancor di più tenendo debito conto dei tanti momenti validi di un film in cui Martone, che è artista di rara intelligenza, pur nell’arditezza del tema e delle situazioni, non urla e sa lasciare, spesso e volentieri, che la severità dello sguardo prevalga sulla tentazione di sottolineare. Così non vediamo mai il ragazzo di cui la protagonista parla e non nego che mi piaccia pensare che costui non esista affatto, che i racconti di Silvia siano solo l’estremo tentativo posto in essere da una moglie innamorata, inesorabilmente messa da parte, per riguadagnare l’attenzione e la considerazione del compagno. La supposizione può spingersi fino al punto di azzardare che lo stesso Carlo, almeno alla fine, raggiunga questa consapevolezza e che in qualche modo ci giochi (la scena nella camera d’albergo a Venezia, la visibile paranoia della donna). Il film lascia cadere volutamente un velo di ambiguità sulla vicenda, svelando poco, non dichiarando la causa della morte di Silvia e chiosando con un passaggio vistosamente simbolico (l’apertura di uno degli scomparti della stanza dell’obitorio che si scoprirà significativamente vuoto); il regista afferma che la scelta di non far vedere il giovane amante ricalca quella del romanzo, in cui il marito (l’io narrante) non lo incontra mai, ma è innegabile che quella del non detto e del non visto sia un’opzione volta scientemente ad ampliare il margine dell’interpretazione.