TRAMA
Una società di moda assume uno stagista decisamente fuori dagli schemi: il settantenne Ben, pensionato. Nonostante le diffidenze iniziali, Ben dimostrerà alla fondatrice della compagnia di essere una valida risorsa per l’azienda e tra i due nascerà un’inaspettata sintonia.
RECENSIONI
Ben ha 70 anni, è vedovo e ha un buco nella vita da riempire: con l'obiettivo di fronteggiare la solitudine, abbraccia il progetto stagista senior (grigio è l'ultimo grido), assecondando una dinamica non convenzionale di un'azienda di abbigliamento che vende capi online. Questa è la circostanza che innesca lo scarto generazionale con la protagonista femminile, su cui si basa la logica della narrazione, e che permette a Nancy Meyers l'ennesima riflessione sullo status della donna nel cinema hollywoodiano. Perché, da qualunque parte si decida di prendere i suoi film, anche quando apparentemente (come in questo caso) il protagonista è un uomo, è sempre quello il fulcro della riflessione delle commedie della regista. Nancy Meyers ancora una volta utilizza un grande divo come tramite della sua operazione: Robert De Niro (come Meryl Streep in È complicato, Jack Nicholson e Diane Keaton in Tutto può succedere). A differenza di altri registi che coltivano la logica del feticcio, l'americana sembra voler coprire la sua opera con interpreti sempre diversi che incarnino, nell'ambito della sua filmografia, un unico ruolo e basta (si aggiungano Mel Gibson, Helen Hunt, Jude Law, Kate Winslet etc dei film precedenti).
I film di Meyers sono immersi nell'attualità, i suoi personaggi ne sono incarnazione, fanno uso di device (e se non lo fanno ci provano), sono connessi (e questo conta anche per l'intreccio: L'amore non va in vacanza), hanno account di Facebook, sono benestanti, quasi sempre creativi, hanno problemi di varia natura (relazionali, personali, amorosi, mai di portafoglio). La sua filmografia rinnova scientemente la tradizione della commedia classica (modello venerato, citato, riprodotto, sottolineato), ogni sua opera ne presenta le stazioni tipiche: i dialoghi brillanti, le schermaglie amorose, le sottotrame a supporto, le derive sentimentalistiche, gli intermezzi malinconici, l'utilizzo delle canzoni in chiave empatica, pillole di comicità garbata (l'appuntamento al funerale di questo film) o maliziosa (il gag della massaggiatrice), alternate a lampi slapstick (il recupero della mail inviata per sbaglio). A quella tradizione si rifanno anche tutta una serie di trucchi e soluzioni ingegnose che la Nostra sfodera sempre con grande sicurezza ed efficacia, come nella prima scena di Lo stagista in cui appare Jules (Anne Hathaway): la percezione è che lei sia una semplice centralinista, ma basterà qualche battuta per dissipare questa apparenza e conferirle l'esatta dimensione, riposizionando le convinzioni dello spettatore da un lato, e dandogli, dall'altro, una serie di informazioni (sì, è il capo, ma non si tira indietro quando c'è da fare).
E già che si parla di Jules: è la classica donna in carriera di cui è punteggiata la filmografia di Meyers e il cui prototipo è la Darcy (Helen Hunt) di What Women Want, vero manifesto ideologico della regista.
Perché, lo ribadisco, quello di Nancy Meyers è cinema che, entro i codici predetti, propone una precisa visione del mondo in cui la donna deve essere autonoma, non si piega al maschio né tantomeno alla logica distorta dell'amore come rinuncia alle proprie ambizioni in nome del sentimento, del legame che ne consegue, della famiglia che ne scaturisce. E qui marca la differenza con tanto cinema simile: le tesi sono incorporate nelle situazioni, non sono mai enunciate a parte, si desumono dai contesti e dalle dinamiche relazionali. Per questo, probabilmente, pochi hanno notato la straordinaria compattezza del suo corpus registico e l'insistenza quasi maniacale su alcuni punti.
La donna del cinema di Nancy Meyers non rinuncia mai a sé e quando ha la tentazione di farlo (Jules, in questo film, Darcy in What Women Want) alla fine si rimette in carreggiata e torna ad abbracciare i suoi obiettivi e i suoi sogni. Perché? Perché è giusto così, perché la donna non può (più?) essere disegnata come l'anello debole della catena, l'elemento sacrificabile. Così Iris (Kate Winslet) in L'amore non va in vacanza, se è succube del suo passato legame con un collega che non ha mai dimenticato e non riesce a dirgli di no, anche se lui palesemente la sfrutta, troverà nei miti consigli del venerando Arthur (Eli Wallach) la piena consapevolezza del proprio valore, opponendo il radicale rifiuto allennesimo subdolo tentativo di strumentalizzare la sua debolezza. È quello che accade, mutatis mutandis, ne Lo stagista dove Robert De Niro, che si professa femminista - scusate se è poco -, è l'angelo custode di Anne Hathaway, colui che ha la missione scritta di salvarla, anche da se stessa.
Torno su L'amore non va in vacanza (che in originale suona The Holiday, titolo palesemente omaggiante il classico Holiday di George Cukor con Katharine Hepburn e Cary Grant) perché è forse il più teorico in assoluto dell'americana. Il livello metadiscorsivo, sempre sottilmente mimetizzato, qui si rende chiassosamente palese: così Cary Grant viene citato alla lettera (e Jude Law un po' lo incarna); Winslet si trasferisce dall'Inghilterra nella Los Angeles delle star, conosce uno sceneggiatore (Eli Wallach, appunto) che le dice che deve ragionare da protagonista (poiché lo è) e non da comprimaria: i suoi consigli prendono la forma di altrettanti classici hollywoodiani da vedere, in cui a dominare è una figura femminile attiva e intraprendente (Lady Eva con Barbara Stanwyck, modello - come la Hepburn di tante commedie cukoriane - di femminilità mai succube). L'incontro amoroso con Jack Black (rinviato a lungo) e la scena al DVD store (una delle più divertenti del film - Black che cita varie colonne sonore -) con l'apparizione di Dustin Hoffman sulle note de Il laureato, sono l'ennesima strizzata d'occhio a una tradizione da sempre omaggiata (non a caso la Meyers è la sceneggiatrice dei remake de Il padre della sposa e Papà diventa nonno di Vincente Minnelli, diretti dall'ex marito Charles Shyer).
Nel suo capolavoro, Tutto può succedere, la protagonista Diane Keaton (che è una scrittrice, ma è un po' la stessa Keaton e sì, la stessa Meyers) scrive commedie e mette su carta l'incomprensione amorosa di cui è protagonista: facendo questo fa chiarezza su sé e i suoi sentimenti e rovescia la frittata. Portando a teatro la sua sofferenza in forma di commedia, ridicolizza l'uomo che ama e questi, comprendendo l'altro punto di vista, finisce con lo struggersi, soffrire e infine capitolare. Anche in quel caso le direttrici ideologiche sono chiare: scardinare il luogo comune per il quale si guarda con benevolenza e ammirazione l'anzianotto che se la fa con le ragazzine e con disappunto bacchettone la tardona che se la intende con l'uomo molto più giovane. La conclusione, rassicurante e sospirata, è un inno al ragionevole sentimento, quello che assicura una vecchiaia serena con un partner complice: l'età (come scriminante sessuale) non conta più niente.
Ma torniamo a Lo stagista: se il protagonista è Ben, la parte dimostrativa, il proclama, per così dire, lo incarna Jules: la ragazza non deve rinunciare alla sua carriera perché il marito smetta di avere l'amante, ma deve portare avanti il suo progetto di vita, trovare un menage familiare che si concili con esso, anche a rischio di un'eventuale separazione. Cosa ci dice la femminista Nancy Meyers? Che la donna non smette di essere moglie perché lavora fuori casa; che l'uomo non smette di essere un marito perché assolve al ruolo di genitore domestico ('il mammo' è definizione subito denigrata). Come sempre il lieto fine è d'obbligo e ha un carattere politico anch'esso: facendo le scelte più giuste per sé, senza sacrificarsi in nome di una retriva visione dell'amore come compromesso che riguarda sempre e solo la donna, le cose si aggiustano (il marito torna all'ovile). Quindi Jules riprende in mano l'azienda e respinge l'imposto aiuto esterno - il temuto supervisore - che è, naturalmente, un uomo, anzi L'Uomo (infatti non lo vediamo mai: è uno spauracchio, un simbolo). La regista, insomma, muovendosi su un confine sfumato, continua a veicolare la sua idea progressista con i mezzi massivi del cinema popolare.
Il tutto condotto con la solita fine ricetta che comprende personaggi secondari memorabili, caratteri antipatici che approdano all'amabilità, campionario di situazioni, oggetti, derive social à la page, in studiato contrasto con un modo di concepire il cinema e la commedia che appartiene, invece, a un tempo lontano. E in cui il discorso dell'esperienza come patrimonio, leit motiv del film, apparentemente giocato su un piano prevedibile (la vita non finisce a 70 anni), è in realtà declinato sul solito versante (nella saggezza della persona più anziana si trova il rispetto di sé come valore non negoziabile).
A fare la differenza stavolta (l'ultimo, È complicato, non andava oltre il sapido riepilogo) è anche un inedito Robert De Niro (lontano da ruoli che evocano altri ruoli che evocano altri ruoli) che qui modula da fuoriclasse su un registro trattenuto.