TRAMA
In seguito a un incidente vascolare cerebrale, Jean-Dominique Bauby si risveglia in una stanza d’ospedale dopo tre settimane di coma. Il neurologo lo avverte: soffre di una “locked-in syndrome”, patologia che lo rende prigioniero del proprio corpo immobile. Ma perfettamente lucido.
RECENSIONI
Tutto il cinema di Julian Schnabel si confronta con un’affermazione e una domanda. 1. L’arte è la forma dell’urgenza; 2. Può questa forma assicurare la sopravvivenza? Combinate, le due enunciazioni circoscrivono con esattezza la non imponente filmografia del regista newyorkese: Basquiat (1996), Prima che sia notte (2000) e, oggi, Lo scafandro e la farfalla. In questi film un individuo di talento è costretto a esprimersi da un’irrefrenabile urgenza interiore: che sia un pittore, un romanziere o un “uomo alla deriva ai confini della vita” non fa alcuna differenza. Basquiat abbozza ritratti sullo sciroppo d’acero versato sul tavolino di un caffè, il fuggiasco Reinaldo Arenas verga rabbiosamente le sue accuse su fogli sparsi, Jean-Dominique Bauby compone parole e frasi sbattendo una palpebra: non sono esteti, sono eruzioni vulcaniche e come tutte le eruzioni hanno vita breve. L’arte non può assicurare la sopravvivenza, quindi. O quantomeno non quella fisica: una volta dato sfogo al magma interiore, l’artefice è consumato, esaurito, spento. Resta la sua opera, ma lui scompare. La lunga premessa per dire che Lo scafandro e la farfalla, pur esulando in apparenza dal percorso cinebiografico di Schnabel, rientra perfettamente nella sua poetica. Sceneggiato da Ronald Harwood a partire dal romanzo di Jean-Dominique Bauby, Le scaphandre et le papillon racconta l’epopea ottico-letteraria di un uomo ridotto dalla “locked-in syndrome” al controllo di una sola parte del suo corpo, la palpebra sinistra. Grazie all’intraprendenza dell’ortofonista Henriette (Marie-Josée Croze) e all’assistenza della premurosa Claude (Anne Consigny), Jean-Do (Mathieu Amalric) riesce a dettare un incredibile libro-diario in cui dà voce a ciò che la sua voce si rifiuta di pronunciare. La vista e l’immaginazione costituiscono dunque quella farfalla che lo scafandro del corpo vorrebbe trascinare in fondo all’oceano. Jean-Dominique lotta per esprimersi e per sopravvivere, ma, come sappiamo, le due istanze sono schnabelianamente incompatibili (qui ci occupiamo di cinema e non della tragica vicenda umana del signor Bauby, smarcarsi dall’ipoteca clinica è assolutamente fondamentale). La vocazione cinematografica del materiale di partenza è sconvolgente (uno dei titoli potenziali era difatti “L’occhio”): lo sguardo monoculare si fa principio di organizzazione del mondo, contatto con la realtà e inquadratura permanente (ai visitatori viene esplicitamente richiesto di parlare in asse a Jean-do, pena la fuoriuscita dal campo visivo). Ebbene, incardinando il film sulla figura della soggettiva, Schnabel mostra di aver afferrato l’intrinseca cinematograficità della situazione. Ciononostante, per eccesso di zelo, cade nell’errore di verbalizzare la stragrande maggioranza delle immagini, finendo per limitarne l’autonomia visiva. Lo scafandro e la farfalla è un film su un occhio, eppure senza il supporto della parola cadrebbe a pezzi: la voce interiore considera, giudica, irride, esclama, spiega. E man mano che i minuti passano il flusso verbale si impadronisce sempre più del film, fino a rendere la pratica visiva del tutto secondaria: le immagini illustrano diligentemente il dettato e nei rari momenti in cui lo sguardo è lasciato libero di fluire (si pensi alle sbirciate alle gambe di Céline) la pellicola riprende magicamente quota. Preoccupato di non chiarire a sufficienza il senso delle situazioni, Schnabel si aggrappa ansiosamente alle parole, comportandosi nei confronti delle immagini come lo scafandro nei confronti di Jean-Dominique: zavorrandole. Ciò non toglie che Le scaphandre et le papillon abbia svariati momenti e motivi d’interesse: non soltanto il merito di raccontare un’impresa di sbalorditiva umanità, ma anche il non meno rimarchevole pregio di assegnare, almeno a tratti, una forma cinematografica consona all’anomalia percettiva del protagonista. Grazie all’incompleto ma palpabile lavoro sullo stile, la pellicola (e di conseguenza lo spettatore) riesce talvolta a raggiungere una posizione progredita sull’argomento: in questo senso il risveglio nell’ospedale dei primissimi minuti, con le immagini che si sfuocano e le forme che si distorcono riottosamente (Janusz Kaminski tratta la luce come materia squillante), rappresenta senza ombra di dubbio il segmento filmico più incisivo e dislocante. Interpretazione struggente di Max von Sydow nei panni del padre di Jean-Dominique, sontuoso monologo di Niels Arestrup nel ruolo di Pierre Roussin e duplice cameo di Jean-Pierre Cassel (a cui il film è “co-dedicato”) come sacerdote a Berck e vendimadonne a Lourdes. Premio per la miglior regia al Festival di Cannes.