Fantasy, Sala

LO HOBBIT – LA BATTAGLIA DELLE CINQUE ARMATE

Titolo OriginaleThe Hobbit: The Battle of the Five Armies
NazioneNuova Zelanda/U.S.A.
Anno Produzione2014
Genere
Durata144'
Tratto dada Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Dopo la sconfitta del drago Smaug, i nani prendono possesso del tesoro nella montagna, ma Thorin Scudodiquercia subisce l’influsso malefico dell’oro e mette in pericolo la Terra di Mezzo.

RECENSIONI

La saga dello Hobbit, e per estensione l'esalogia della Terra di Mezzo, giunge alla sua conclusione come Bilbo Baggins giungeva alla sua maturità: stanca e tirata, come burro spalmato su troppo pane. Non si tratta, o non soltanto, della tanto vituperata decisione di stendere la materia narrativa del romanzo di Tolkien (poco più di 300 pagine) su una trilogia, quanto delle tensioni spesso inconciliabili che hanno mosso l'operazione, strattonandola in direzioni opposte fino a lasciare lo spettatore con i brandelli fra le mani.

La prima e più nobile anima del progetto Lo Hobbit è quella del cineasta Peter Jackson: demiurgo visivo della Terra di Mezzo, filologo appassionato dell'opera di Tolkien, ha prima rifiutato la saga prequel, poi l'ha raccolta dalle mani di Guillermo del Toro con arrendevole entusiasmo, utilizzando questa seconda trilogia per allargare e dettagliare la sua versione dell'universo immaginario tolkieniano. Vivendo ogni capitolo come l'occasione di espandere e colorare un angolo della mappa (qui, oltre alla già nota Erebor, il rinato regno di Dale e l'oscura, pestilenziale roccaforte degli orchi Gundabad), e di assestare un tassello di storia fittizia della Terra di Mezzo, come se fosse un remoto passato (o un ancor più remoto futuro) del nostro mondo: territori tangibili e veri, gesta epiche che hanno segnato lo scorrere del tempo. Una legittimazione della galassia narrativa finzionale che si muove nel solco delle intenzioni già esplicitate da Tolkien, il quale sosteneva che 'le storie di fantasia, per essere credibili, devono essere intensamente pratiche. Una mappa è necessaria, per quanto rozza'. Jackson non perde occasione di aggiungere carne sullo scheletro della sua mappa, di rendere più corposi e credibili gli immaginari volumi di topografia, antropologia e zoologia della Terra di Mezzo, e giunto al sesto film dell'epopea, lo fa con il piglio di un mad scientist fuori controllo: montagne e torri, spianate e pipistrelli giganti, il parossistico esplodere della versione tridimensionale di illustrazioni pop up, qui producono un effetto ridondante, che culmina negli incongruenti Mangiaterra, mastodontici vermoni primordiali alla Tremors che sbucano zannuti dalle profondità del sottosuolo, lasciando il pubblico più interdetto che ammirato.

La seconda linea direttrice, impietosa e inevitabile per un prodotto come Lo Hobbit, è quella commerciale. Le vicissitudini produttive della saga sono ormai arcinote: concepito e inizialmente filmato come un dittico, è stato dirottato sulla forma trilogia a riprese già effettuate, costringendo a un’operazione di ridistribuzione della materia narrativa su tre capitoli. Se apparentemente la mossa poteva indicare l'episodio centrale come quello più svantaggiato, creato ex novo dal minutaggio degli altri due, la visione di La battaglia delle cinque armate rende lampante che a essere depredata di contenuti drammatici è stata la conclusione. In assoluto il film più breve di tutta l'esalogia (144 minuti - ma Jackson promette che la extended edition ne avrà ben 174, contando così il più sostanzioso materiale aggiuntivo di tutta la saga), il fenomenale villain Smaug archiviato prima ancora che il titolo compaia sul grande schermo, il problema sostanziale della scrittura di questo capitolo finale non è, come spesso additato, l'aver esteso a quasi un'ora di durata una battaglia che occupava quattro pagine nel romanzo, ma l'allarmante assenza di altri climax. Nelle mani (otto, in tutto) degli sceneggiatori sono rimasti solo i fili di trame inventate, pur con buona volontà, per rimpinguare la trilogia: così la love story interrazziale e impossibile fra l'elfa Tauriel e il nano Kili, come le schermaglie babbo/figlio ribelle fra Thranduil e Legolas, si mangiano gran parte dell'opera, offuscando la centralità del percorso dell'eroe Bilbo e affossando il sano spirito da fantasy ludico dei primi due capitoli, quell'avventura per la quale eravamo partiti con Un viaggio inaspettato.

La terza e non meno perniciosa forza motrice del film è la volontà, non sappiamo in che proporzioni attribuibile agli autori e ai produttori, di plasmare l'andamento di questa trilogia su quella di Il signore degli anelli. Capitolo più cupo e tragico, solcato da venti di battaglia e da lutti inevitabili, questo finale richiama Il ritorno del re in modalità ora legittime, ora imbarazzanti: è giusto chiedersi quanto, nella folle bramosia d'oro che ammorba il nano Thorin, sia frutto della volontà di anticipare il tema portante dell'opera di Tolkien, quello dell'inesauribile corruttibilità dell'uomo e della sua cieca sete di potere, e quanto sia puro e semplice fan service, il desiderio di dare ai seguaci della saga il brivido del riconoscimento e della citazione (quelle 's' sibilanti, tratto distintivo di Gollum, che echeggiano nelle parole di Thorin posseduto dal suo tesoro). Passato per numerose mani, tagliato e rappezzato, imbottito di 'iniezioni' narrative supplementari, ritoccato in postproduzione fino a meno di un mese prima dell'uscita in sala, La battaglia delle cinque armate appare come un prodotto senza paternità, privato di un'identità che Jackson stava edificando non senza fatica. Proprio lui, che 13 anni fa ha ridefinito i connotati del fantasy rilanciandolo su grande e piccolo schermo, chiude un viaggio lungo sei film giocando al ribasso, non alzando mai alcuna asticella (né tecnica né poetica), soccombendo a un immaginario ipersaturo in cui gli scorci di meraviglioso intravisti nei primi due capitoli non trovano più posto. Fra la prima e la seconda trilogia ci sono state, al cinema, innumerevoli scene di battaglie sovradimensionate, quasi tutte debitrici degli scontri armati plasmati da Jackson; c'è stato il revival del fantasy per ragazzi e, sul piccolo schermo, di quello truce e vietato ai minori di Il trono di spade; Jackson sembrava voler fare tabula rasa e rivendicare una nuova innocenza del genere, ma il suo ultimo film somiglia al suo creatore meno di quanto somigli ai suoi emuli.