TRAMA
Enzo Ceccotti, un pregiudicato di borgata, entra in contatto con una sostanza radioattiva. A causa di un incidente scopre di avere una forza sovraumana. Ombroso, introverso e chiuso in se stesso, Enzo accoglie il dono dei nuovi poteri come una benedizione per la sua carriera di delinquente. Tutto cambia quando incontra Alessia, convinta che lui sia l’eroe del famoso cartone animato giapponese Jeeg Robot d’Acciaio.
RECENSIONI
Per cominciare due considerazioni. Una di carattere socio-antropologico: oggi l'adolescenza è una condizione esistenziale, mentale e spirituale che si protrae al di là di quelli che sarebbero i consentiti limiti di età: non è più associabile a un preciso intervallo di anni, è ormai un modus-vivendi trans-generazionale. La seconda, invece (comunque in stretto rapporto con la prima), di taglio biografico: Gabriele Mainetti (Roma, 7 novembre 1976), regista di Lo chiamavano Jeeg Robot, fa parte di quella generazione di autori nata nell’era della supremazia televisiva e maturata in quella dei nuovi media. Fattori determinanti in termini di economia dell'immagine e che aiutano a leggere sotto la giusta lente il successo di questo esordio in lungo, autentico frullato transmediale, che centrifuga suggestioni cinefile, catodiche, musicali e fumettistiche.
Mainetti gioca consapevolmente con quella tendenza, ben sintetizzata da Emiliano Morreale nelle pagine di L'invenzione della nostalgia: il vintage nel cinema italiano e dintorni, che la sua generazione e quelle successive hanno di «autorappresentarsi regressivamente attraverso frammenti di merci della propria gioventù» (e i corti che precedono questo lavoro ne sono la riprova: Basette, variazione coatta sul mito di Lupin con Valerio Mastandrea e Marco Giallini, e Tiger Boy, dove un ragazzino non abbandona mai la sua maschera da Uomo Tigre). È il risultato, come evidenziato da Gianni Canova in L'alieno e il pipistrello, di decenni d'instancabile introiezione di mode, oggetti, etichette; effigi di un perverso processo di cosalizzazione o cosificazione, unici contrassegni ancora capaci di funzionare come dispensatori d’identità.
E tutto questo ritorna nella costruzione dei protagonisti di Lo chiamavano Jeeg Robot, in qualche modo coetanei del regista, come lui figli di quella stagione televisiva che ha coinciso con la fase d'affermazione delle emittenti commerciali, momento interrotto di sbornia, che, per mezzo d'una programmazione non-stop, ha trasformato un'intera popolazione in un pubblico di telespettatori. Ciascuna delle tre figure attorno a cui si costruisce il film raffigura, attraverso i suoi apparati retorici, gli stili, e le proprie iconografie, una precisa comunità d'ascolto: Alessia (Ilenia Pastorelli), bambina sperduta in un corpo di donna, in fissa con Jeeg Robot d'acciaio, incarna il pubblico del contenitore pomeridiano per ragazzi; Fabio "Lo zingaro" Cannizzaro (Luca Marinelli), capo d'una batteria di delinquenti di quartiere e interprete en travesti delle signore della musica leggera italiana Anni 80, è la degenerazione dei mega-show generalisti di pura evasione; Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) ladruncolo sfigato votato al più totale anonimato, consumatore compulsivo di dvd porno, è evidente rappresentanza del cosiddetto pubblico della notte.
Oltre a condividere gli umori generazionali, personaggi e autore hanno in comune anche il contesto: Roma. Teatro delle vicende del film è Tor Bella Monaca. Lo chiamavano Jeeg Robot, in questo, conferma una certa propensione in atto nel cinema italiano di genere (ma riscontrabile anche nella nuova graphic novel romana alla Zerocalcare), ovvero quella di fare della periferia capitolina, e di conseguenza della sua fauna (sotto)metropolitana, il centro propulsore della narrazione.
E l'idea vincente avuta da Mainetti è stata quella di condensare tutte queste tendenze, appena accennate, con la passione supereroistica di derivazione hollywoodiana (e comunque legata a quell'atteggiamento nostalgico di cui si faceva riferimento all'inizio). Il regista propone un revisione del mito del supereroe in chiave borgatara, debitrice dell'operazione condotta da M. Night Shyamalan con Unbreakable – Il predestinato. Il lavoro compiuto sul personaggio di Enzo, versione popolana e pezzente di Hiroshi Shiba, ricorda la smitizzazione compiuta sulla figura di David Dunn. Mainetti sembra voler sottolineare poi una certa continuità con Shyamalan anche attraverso un gioco di metafore cromatiche (si faccia attenzione al fucsia), tipiche del regista di Il sesto senso purtroppo, però, qui non risolto con altrettanta efficacia.
Al di là dei difetti che possono essere trovati, l'operazione di Mainetti funziona, laddove quella similare tentata da Gabriele Salvatores con Il ragazzo invisibile si è dimostrata fallimentare: e questo perché il regista di Lo chiamavano Jeeg Robot non alcun timore reverenziale verso il possibile universo di riferimento, ma, al contrario, ha il coraggio necessario (proprio perché nutritosi - a differenza del collega - di quell'immaginario) di assimilarlo e rielaborarlo.