TRAMA
Un uomo ordinario, ridotto da anni di oppressiva routine d’ufficio a condurre un’esistenza nell’ombra, all’ultimo minuto fa uno sforzo supremo per trasformare la sua vita noiosa in qualcosa di meraviglioso.
RECENSIONI
Il regista sudafricano Oliver Hermanus raccoglie l’eredità di Akira Kurosawa e, con la complicità dello scrittore e premio Nobel Kazuo Ishiguro in veste di sceneggiatore, gira, a settant’anni di distanza, il remake di Vivere, considerato uno dei capolavori del maestro giapponese. Cambia l’ambientazione, da Tokyo a Londra, ma non l’epoca, che rimane quella dei primi anni ‘50. Il remake è una fedele riproposizione dell’originale con, però, un minore pessimismo di fondo, esplicitato da figure di contorno più inclini a raccogliere l’esempio virtuoso del protagonista. Se l’insieme scorre raffinato e minimale lo si deve molto a Bill Nighy, maschera di imperturbabile compostezza che gioca di sottrazione nel caratterizzare il protagonista, un uomo abituato a nascondere le emozioni in nome di una quiete che tutto mette a tacere e anestetizza, un funzionario pubblico per cui le pratiche di ufficio che potrebbero comportare complicazioni vengono accantonate, “tanto non succede nulla!”. Un modus operandi purtroppo sempre attuale che nel film prende la forma di una critica all’insensatezza della burocrazia, dove il bene comune soccombe all’inerzia e si perde nel labirinto di corridoi, scrivanie e scartoffie, in cui smarrisce rapidamente ogni direzione e possibile via d’uscita. Una malattia terminale in stadio avanzato mette il protagonista, forse per la prima volta, davanti a un bivio: continuare nel silenzio a vivere gli ultimi giorni della propria vita o prendere finalmente coscienza di ciò a cui si è rinunciato, proprio come il James Stevens di Quel che resta del giorno, non a caso successo letterario di Ishiguro?
Il riscatto passa attraverso la realizzazione di un parco giochi per bambini a lungo posticipato e in quell’agire, in nome di un ideale, il protagonista scopre (forse riscopre) la gioia di vivere, smettendo di essere Mr. Zombie, come viene soprannominato, per rinascere come un Mr. Williams finalmente libero. Nel riproporre la vicenda si sceglie di illustrarla in linea con il film di Kurosawa, senza osare granché, né sul piano formale, né a livello di contenuti. Se la parabola raccontata ha sicuramente un valore universale che le consente di attraversare indenne epoche e geografie, l’intento pedagogico grava però sul risultato piegando i personaggi alla lezione morale che si vuole trasmettere. Colpisce anche che nel riproporre la vicenda a un pubblico contemporaneo la presa di coscienza messa in scena non trovi alcuna apertura nei confronti del figlio del protagonista, abbandonato a una grettezza senza appello, quando buona parte del suo atteggiamento di indifferenza e sopportazione nei confronti del padre deriva inevitabilmente dall’esempio che lo stesso padre gli ha dato. L’insieme arriva quindi asciutto e privo di enfasi, nonostante gli agguati della colonna sonora onnipresente, ma con poco da aggiungere al modello di riferimento, omaggiato con eleganza.