TRAMA
Arcipelago giapponese, città di Megasaki, anno 2037. A causa di una presunta influenza canina che rischia di contagiare anche gli umani, il sindaco-dittatore Kobayashi ordina il confino di tutti i cani in un’isola-discarica. Atari, giovane pupillo del sindaco, disubbidisce alla drastica misura e decide di recuperare il suo amato Spots, primo cane ad essere stato esiliato. Nella sua missione viene aiutato da un gruppo di malconci quattrozampe.
RECENSIONI
I bite. Io mordo.
Chief, randagio diffidente dal pelo nero (o almeno così sembra) e dal corpo cosparso di cicatrici, non trova definizione migliore per smarcarsi dal resto dei compagni quadrupedi che hanno deciso di aiutare il giovane Atari Kobayashi, dodicenne malinconico in bilico tra vita e morte, piccolo principe con un pezzo di metallo conficcato nel cranio, spericolato aviatore in erba alla ricerca del suo fido Spots. Chief ringhia e morde, non conosce un modo migliore per entrare in relazione con gli altri, delimita rigorosamente il suo territorio, dice di no quando gli altri dicono di sì, si autoesclude. Eppure, in conflitto con l’idea che ha di sé, sarà proprio lui a guidare la missione di salvataggio del cane perduto.
Fiaba politica, allegoria swiftiana, bildungsroman a quattro zampe. Possono essere affibbiate diverse etichette, tutte valide, a L’isola dei cani, seconda incursione di Wes Anderson nella stop-motion - dimensione creativa e artigianale ideale per il suo perfezionismo demiurgico - ma anche ennesima tappa dell’apertura del regista texano all’esterno e al Tempo. Dopo l’isola-mondo pre-sessantottina di Moonrise Kingdom e la Storia a scatole cinesi della Mitteleuropa di Grand Budapest Hotel, ecco il futuro distopico del Giappone post-Fukushima, anno 2037. Un Giappone che è territorio immaginario, sintesi iconica di un Paese così com’è percepito, e amato, da uno sguardo occidentale, precipitato di suggestioni nutrite da anni di consumi culturali. Nella megalopoli di Megasaki e nell’isola-discarica ad essa prospiciente si susseguono e intrecciano le scorribande aeree di Miyazaki e l’epica dei bassifondi di Kurosawa, il cyberpunk di Katsuhiro Otomo e i paesaggi desolati da incubo nucleare dei kaijū eiga, il dinamismo dei manga e i preziosismi della stampe ukiyo-e.
Il cinema ortogonale di Anderson, ormai proverbiale tessitura geometrica di inquadrature frontali, campi lunghissimi, carrelli laterali, scansioni simmetriche, trova quindi una rispondenza nei paraventi nipponici, nelle porte a pannello scorrevoli della abitazioni tradizionali, nella verticalità delle xilografie di Hokusai e Hiroshige, riscoprendo anche la profondità di campo. Un profusione stordente di dettagli e un fulgore visivo che segnano quasi un punto di non ritorno nell’estetica andersoniana del libro pop-up, della casa di bambola, del teatro di marionette, croce e delizia rispettivamente dei suoi detrattori e sostenitori. Ma questo Sol Levante di cartone e plastilina, ritmato come fosse un appello alla rivolta dalle percussioni taiko della colonna sonora di Desplat, non è esente da crudezze e crudeltà: nel suo stridente racconto la flemma canina deve fare i conti con lager e deportazioni, epidemie e sterminio, slogan populisti e fake news. L’apologo si fa specchio non solo dell’America trumpiana ma di un’intolleranza retriva con propaggini antiscientiste che interessa e minaccia l’Occidente tutto.
E poi: simboli su simboli, didascalie, cartelli, sovrimpressioni. Un impero dei segni in cui il linguaggio può diventare trappola, manipolato dal potere che ne fa arma ingannatrice. Solo i quadrupedi, per una convenzione dichiarata all’inizio, parlano inglese (oltre a loro, una studentessa americana a capo della resistenza pro-quattrozampe), tutti gli altri in giapponese non sottotitolato che all’occasione rimarrà una lingua incomprensibile, un sistema di suoni da decifrare come amichevoli o ostili, oppure verrà tradotta da appositi mediatori. In questa babele l’autenticità delle relazioni deve contare su qualcosa che vada al di là del verbale o su una lingua depurata fino all’essenziale (l’haiku finale). Adieu au langage.
Tornando a Chief e al suo “io mordo”, ecco che sarà l’interazione con Atari, essenzialmente gestuale, a metterlo in crisi e a fargli raggiungere una maggiore consapevolezza di sé, scevra da automatismi (“I’m not a violent dog, I don’t know why I bite”, ammetterà verso la fine). Tra randagismo e addomesticamento, poli esistenziali opposti, il percorso fatto da Atari e Chief traccia una riflessione su cosa significhi dirsi liberi in un mondo di assoluta solitudine o in un universo di relazioni che, volenti o nolenti, delimitano e definiscono il nostro essere, arricchendolo. Wes Anderson ne fa sintesi folgorante nella sequenza del mutuo addestramento tra cane e ragazzo sullo sfondo di un luna park abbandonato: tra albeggiante tenerezza e sotterraneo dolore, ad imporsi è il bisogno insopprimibile dell’appartenenza, a un “padrone”, a una famiglia, a una comunità, semplicemente all’altro da sé. Dal privato al sociale, il passo è breve: l’istinto gregario dei cani si fa ideale democratico, il riflesso individualista cede alla costruzione ragionata di una comunità civile, di una convivenza pacifica tra diversi.
Orso d’argento per la miglior regia all’ultima Berlinale.