L’ISOLA (2006)

Anno Produzione2006

TRAMA

1942. La Seconda Guerra Mondiale infuria e uno dei tanti drammi ha luogo nelle acque del Mar Bianco, dove la marina tedesca intercetta un rimorchiatore sovietico. Prima che la nave venga fatta affondare, due marinai russi vengono obbligati da un ufficiale del Reich ad una scelta crudele. Passano gli anni e il ricordo di quei fatti lontani sembra sopravvivere nella coscienza di un singolare eremita, che vive in un monastero ortodosso situato proprio in quei luoghi.

RECENSIONI

Ritratto di un eremita

La nuova opera di Pavel Lungin, una delle voci più interessanti e innovative del cinema russo dalla fine degli anni ’80 (e del comunismo sovietico) ad oggi, si candida di diritto ad oggetto misterioso di Venezia 2006. Cosa c’è di tanto sconcertante in questo Ostrov – The Island, lungometraggio tendenzialmente prolisso ma ricco di immagini fascinose e spiritualità demodé? Apparentemente nulla di strano, considerando che pochi anni sono passati da quando un altro russo, Andrey Zvyagintsev, catturò l’attenzione della Mostra grazie ad un film parimenti poetico e fuori tempo massimo come Vozvrashcheniye (Il ritorno). In entrambi i casi, anche al di là del carattere enigmatico esibito dal soggetto narrato, è un particolare uso del linguaggio cinematografico a confondere la percezione dello spettatore, quasi si trattasse di un inusitato ritorno al passato: il passato glorioso del cinema russo.
Tanto Vozvrashcheniye che Ostrov sanno irretire (e per taluni irritare) col gusto inattuale di interminabili e studiate carrellate, di una raffinata composizione dell’inquadratura, e di altre soluzioni di ripresa spinte verso un formalismo quasi accademico. Ma Lungin è pur sempre Lungin, ed un film del genere non è esattamente ciò che ci si aspetterebbe da chi, una quindicina di anni fa, seppe rompere con certi schemi, elaborando forme visuali e narrative scioccanti per meglio rappresentare una crisi di valori ormai accertata: quella che accompagnava la disgregazione dell’impero sovietico. Al confine di generi cinematografici poco consoni alla cultura ufficiale dell’Urss, ecco comparire il degrado urbano, il disorientamento morale e un esasperato ricorso alla violenza quali ingredienti di Taxi Blues (1990) e del successivo Luna Park (1992). Eppure, come hanno dimostrato episodi più recenti della sua filmografia, Pavel Lungin è autore polimorfico, capace di imbastardire le proprie cifre stilistiche, adattandole efficacemente all’oggetto del discorso. Tutto questo, senza mai rinunciare ad un legame, anche forte, con le problematiche più vive e attuali della società russa.
All’interno di un simile percorso l’eccentrica poetica simil-tarkovskiana di Ostrov rischia di apparire un corpo estraneo, se non addirittura un autodafè. Ciò che sfuma è innanzitutto la capacità del regista di rapportarsi all’oggi, alla logica del mutamento. Squarci metafisici e a-temporalità sembrano farla da padroni, contaminando lo sviluppo diacronico del soggetto. Ma sarà veramente così? Intanto abbiamo un prologo splendido, ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale nel settore del Mar Bianco. Belle immagini desaturate, tra cui campeggia il viraggio rosso fuoco di una bandiera nazista, ci introducono al drammatico aneddoto bellico che vede protagonisti un rimorchiatore sovietico e il suo equipaggio, abbordati da una imbarcazione della marina tedesca. La drammaticità della situazione è simile a quella delle pellicole che i due Guerman, padre e figlio, hanno dedicato a scenari di guerra ugualmente datati, privilegiandone il fattore umano. L’ufficiale sovietico impavido accanto al marinaio vile e traditore: in Ostrov sono questi i due soggetti, fortemente tipizzati, che la ferocia nazista gioca a mettere uno contro l’altro. Il tragico incidente che ne deriva è all’origine del senso di colpa che per anni tormenterà Anatoly, accolto immediatamente dalla comunità monastica ortodossa di Padre Job e Padre Filaret, dove gli atteggiamenti del nuovo arrivato, oltre a creargli fama di guaritore, non tarderanno a creare contrasti con gli altri monaci. Spiritualità e materialismo, come poli dialettici tenuti in precario equilibrio dalla sofferta esperienza dell’eremita Anatoly.
Lo ripetiamo, nonostante un’eleganza formale figlia del notevole dominio sulla messinscena che il regista russo ha sempre saputo esercitare, è piuttosto straniante vederlo alle prese con un racconto che quasi riecheggia l’Andrej Rubliov di Tarkovskij. Ostrov è significativamente uno dei pochi film che Pavel Lungin non ha anche scritto, la sceneggiatura risulta infatti di tale Dmitri Sobolev. Ma soprattutto è interpretato da un intensissimo Pyotr Mamonov, nel ruolo di Padre Anatoly. E qui i conti tornano. Perchè Mamonov non solo aveva interpretato per Lungin lo straordinario co-protagonista di Taxi Blues, ovvero il sassofonista ebreo Lyosha con litri di vodka nelle vene, ma in tempi più recenti è stato al centro di una parabola personale assolutamente eccentrica: ex leader della storica rock band russa Zvuki Mu, dopo aver riscoperto la fede il gaudente Mamonov si è ritirato dal mondo dello spettacolo, andando a vivere in un piccolo villaggio con la famiglia e tanti, tanti gatti. Come a dire: Padre Anatoly c’est moi! Senza dover per forza approfondire l’argomento, questo strano cortocircuito tra il personaggio cinematografico e il vissuto dell’attore, come anche il ritrovato feeling artistico tra costui e Pavel Lungin, offrono spunti di riflessione che vanno oltre l’enigmatica ed eterea natura di un film come Ostrov.

Voto:  7                                                         Stefano Coccia