TRAMA
Marta e Leo convivono (a fatica), Anna e Gustavo sono infelicemente sposati: come finirà il gioco delle coppie?
RECENSIONI
Dopo “Autunno”, accolto da tiepidi consensi (e bordate di fischi) a Venezia ‘99, Nina Di Majo continua a scandagliare le magagne di un mondo al capolinea, i cui valori di riferimento sembrano essere l’egoismo, l’invidia, il terrore del confronto, anche (anzi, soprattutto) amoroso. L'espediente è classico: osservare nel microcosmo (due coppie sposate, o quasi) il disfacimento dell'individuo, oltre a quello di un modo d’intendere la vita, tipico della borghesia medio – alta, fra nevrastenie intellettuali e perversioni più o meno erotiche. Modelli evidenti: Strindberg, Bergman, l’Allen di “Interiors”.
Nulla di originale, come si vede, ma non è questo il punto: esistono autori teatrali e cinematografici capaci di costruire, su un disegno quasi logoro, una preziosa trama di sguardi e gesti all’apparenza banali, di corrispondenze segrete, un gioco (al massacro) condotto dal soave demone dell'ironia. La Di Majo non ha (ancora?) questa capacità: il suo sguardo continua a essere troppo dipendente da quello dei maestri che ha eletto, tanto nel contenuto quanto nella forma generale dell’opera.
La borghesia al tramonto è un tema vecchio di almeno trent’anni e forse (lo diciamo? diciamolo) non più così interessante: la regista sembra rendersene conto, ed evita la tentazione dell’affresco concentrandosi su quattro personaggi persi in un impalpabile girotondo di segreti, bugie, menzogne e illusioni frustrate. Ma anche nella trattazione dei caratteri la Di Majo ripropone con pedanteria le solite maschere dell'indifferenza: lo scrittore ex di successo, alle prese con un romanzo “difficile” che probabilmente gli alienerà l'affetto di critica, pubblico ed editori (un po' come in “Pola X” di Carax); la gallerista il cui fascino sta tutto nell'immatura instabilità con cui affronta, o evita di affrontare, gli altri; la traduttrice insicura, attualmente disoccupata e civettuola; suo marito, un rozzo gaudente con una passione per le donne più giovani.
Prendete questi quattro casi clinici, aggiungete qualche figura secondaria (un analista amante dell'arte e delle sue pazienti, un vecchio moribondo, la sua arcigna consorte e così via), chiudeteli ermeticamente in un labirinto di stanze enormi come capannoni industriali in disarmo (tanto per sottolineare come il declino della società industriale stritoli le persone), in eterna penombra, che si aprono sporadicamente su paesaggi di un uniforme bigio acciaio, e avrete “L’Inverno”, un’opera nata vecchia (per non dire morta), che tenta di destrutturare il tempo della narrazione tradizionale e di mettere in crisi l’idea stessa di “persona” (maschera, ombra, frammento onirico), ma riesce solo a proporre un patinato catalogo di depressioni fin de siècle, la cui perizia tecnica trova l’eguale unicamente nella banalità quasi spavalda con cui ogni scena è sviluppata, o meglio, urlata. “Autunno” aveva dalla sua un’ingenua abilità narrativa, uno sguardo forse non originalissimo, ma partecipe e non indulgente, nei confronti dei personaggi, una buona capacità di violare la linearità del tempo cinematografico: soprattutto, la protagonista (interpretata dalla regista stessa) affermava la superiorità del cinema “di emozioni” su quello “di effetti”. Qualcosa è peggiorato.
Gli attori? Pallidi ricordi di se stessi. Si salvano, in parte, Gifuni e Golino, fra tutti la più espressiva (non che voglia dire molto, in un simile contesto). Bruni Tedeschi fa la parodia del suo unico, ormai insopportabile personaggio, la “schizzata” cronica, e sfoggia per tutta la durata del film una vocina alla Topo Gigio a dir poco esilarante.
