TRAMA
Immaginiamo che esista un nuovo mestiere e che si chiami “rimpiazzo”. Immaginiamo che un uomo senza lavoro lo pratichi ogni giorno, questo mestiere. E dunque che lavori davvero oltre misura e che sia un uomo a suo modo felice. Lui non fa altro che prendere, anche solo per qualche ora, il posto di chi si assenta, per ragioni più o meno serie, dalla propria occupazione ufficiale. Si accontenta di poco, il nostro eroe, ma i soldi non sono tutto nella vita: c’è il bisogno di tenersi in forma, di non lasciarsi andare in un momento, come si dice, di crisi buia. Immaginiamo poi che esista un ragazzo di vent’anni, suo figlio, che suona il sax come un dio e dunque è fortunato perché fa l’artista. E immaginiamo Lucia, inquieta e guardinga, che nasconde un segreto dietro la sua voglia di farsi avanti nella vita. Ce la faranno ad arrivare sani e salvi alla prossima.
RECENSIONI
Non c'è pace per gli eroi
L'«Intrepido» era il fumetto che Gianni Amelio leggeva da ragazzo (e che il piccolo Jacques Cormery ne Il primo uomo nascondeva allo sguardo severo della nonna), perché intrepidi erano gli eroi protagonisti delle sue storie ambientate in scenari esotici, gli audaci che viaggiavano per amore del rischio e si battevano per i propri ideali, che celebravano l'aiuto disinteressato di chi si trovava nei guai, plasmando nel mondo vie di fuga possibili per i più deboli, i ragazzi, i "salvati" consapevoli che l'eroe sarebbe sempre rimasto al loro fianco. Amelio rivela che il titolo del film, L'intrepido, «è nato insieme all'idea, senza alternative»: «nel mio striminzito vocabolario, intrepido era una parola difficile, che aveva a che fare con il coraggio, l'intraprendenza, con una sorta di fierezza leonina. E mi spaventava, la trovavo esagerata. Però non ci stavo io dentro l'avventura e ogni martedì mi salvavo davvero, scampando il pericolo di essere come loro, come gli eroi, e di passarne di tutti i colori. Non ne valeva la pena». In un paese in cui i figli, tenuta in scacco ogni speranza (significativa al riguardo la scelta ironica dei nomi propri: Ivo, «[robusto come la] pianta del tasso», e la «luminosa» Lucia), stanno peggio dei padri e lo spostamento - coatto - sembra coincidere con l'imperativo «andare camminare lavorare», il protagonista Antonio Pane (Antonio Albanese, per il quale il film è stato scritto), personaggio-fulcro della narrazione, fa il rimpiazzo - sostituisce provvisoriamente, vestendo ogni volta i panni di un mestiere diverso, chi per un giorno o una manciata di minuti non può recarsi al lavoro - ed è un uomo tutto d'un pezzo: la sua faccia è inequivocabilmente «buona» ("come il pane", suggerisce il suo stesso cognome, carattere ben incarnato dalla maschera-Albanese), mai intaccata dagli sberleffi dell'astuzia, e il suo incedere "vagabondo", talvolta affannato e deluso, è comunque contrassegnato da un dinamismo ottimistico capace di rimpiazzare anche l'ombra della città che inghiotte; tratti, questi, che sono l'espressione di un itinerario che il protagonista, a differenza di altri eroi dei nostri tempi che si trascinano nella commedia all'italiana, ha già percorso, di una incorruttibile coscienza morale già conquistata, di una qualità - emarginata soffocata soppressa - che non rende in questa eterna età di mezzo.
Antonio Pane è quindi intrepido perché, in una condizione di precariato estremo, non ha - racconta Albanese - «sogni consumistici» né «inquietudini banali», ma «accetta la solitudine, il lavoro precario, la paga saltuaria, l'abbandono della moglie, un concorso andato male, senza mai perdere la speranza che domani sarà meglio». Onesto, disposto a sopportare quasi tutto, a dare senza chiedere nel lavoro e negli affetti, ma pronto a voltare le spalle all'insensatezza di un sistema che non contempla nemmeno l'illusione di qualcosa di «giusto» da «indicare» (neanche un paio di scarpe a un possibile acquirente) e deciso infine a riemergere lontano da un incubo dilatato che preserva il vuoto, la desertificazione dei rapporti, l'ambiguità al lavoro, attraverso una fuga in Albania che segna un tragitto anche simbolicamente rovesciato rispetto a quello raccontato in Lamerica: nel film del 1994 la compitazione di parole significative da parte degli emigranti culminava con il miraggio evocato da «mare», mentre ne L'intrepido il risveglio provocato dalla parola «figlio» richiama Antonio alle proprie responsabilità genitoriali e lo avvicina definitivamente a quella figura di padre «perfetto» che Colpire al cuore negava, capace di mostrare al proprio figlio non tanto «dov'è il bene e dov'è il male», ma qualcosa di più vitale come il respiro. Se il suo candore elementare, che fa di Antonio una variante problematica del personaggio di Totò il buono (dal titolo del romanzo di Cesare Zavattini da cui è tratto il soggetto di Miracolo a Milano, di cui Amelio scrisse: «è forse il film più bello della nostra vita? Qualche volta penso di sì»), può ancora riempire lo sguardo in un mondo che non ha più niente di fiabesco, sono appiattite su traiettorie stereotipate alcune figure che orbitano intorno a lui (i mafiosi orchi tenutari della palestra, gli imprenditori burattinai di loschi affari, gli immigrati solidali vicini di casa), ridondano le domande («Sei felice?», «Hai bisogno d'aiuto?») che egli rivolge inutilmente a una generazione di figli tormentati, spiazzano le incongruenze (preso d'assalto dai cronisti, Antonio risponde che, sì, la ragazza era piena di vita) e sono numerosi i dialoghi francamente indigeribili (Antonio: «La fame è una brutta cosa, l'appetito aiuta»). Meglio allora passare oltre certi tic irrigiditi e proseguire la ricerca di risposte sulla felicità - ovvero sull'«immensa tristezza che deriva dall'essere la vita com'è e non come dovrebbe essere» (Zavattini) - soffermandosi altrove: osservare la città, Milano come spettrale cupola estesa sul paese, che sovrasta le umane figurine passeggere schernite da slogan fossilizzati del fallimento (UN GRANDE FUTURO PASSA DI QUI; LA TERRA TREMA). E ricordarsi che, come conclude questa commedia with a tear - and perhaps, a smile, l'ultimo sorriso, la via di fuga, come il volo di Totò, spetta a chi continua a vegliare a suo modo su di noi.

Amelio coniuga lo sguardo sul presente (l’ottimo spunto di base riflette la crisi economica) alle forme cinematografiche del passato (molto Chaplin e l’amara commedia all’italiana anni sessanta), raccontando ancora la difficoltà dell’assunzione del ruolo di padre: in questo caso, però, azzarda troppo nel cambio di registro, dandosi alla commedia (anche) “alla Albanese” e restituendo un’opera indecisa, fino all’immobilità, fra tiepide scene buffe, improvvisazione, neorealismo rosa, melodramma, grottesco, surrealismo ponderoso e realismo magico (Miracolo a Milano: la città ritratta è davvero brutta). La prima parte introduce l’essere candido, fuori dal mondo per ottimismo e bontà; in seguito indossa la commedia ritraendo vari mestieri con “gag” che, non andando mai a segno, fanno dileguare il “senso” della scena. È la commedia stessa a rigettare l’inverosimile tipo chapliniano che, nel contesto realistico, stona ancor più con la sua indisponibilità comica: quando subentra il dramma, invece, l’opera funziona nella rappresentazione del senso di inadeguatezza dell’angelo che aiuta tutti a sorreggere il mondo che ama. Eppure, compresa la chiusura con sorriso di Albanese verso la cinepresa, ancora non si comprende il senso dell’operazione: cinefilia nostalgica del vagabondo Charlot con annessi sentimentalismi? Sguardo amaro amorevole sulla contemporaneità (chi fa soldi bara, chi lavora non ne fa)? Schietto racconto su di un uomo troppo intrepido per essere accettato dal mondo sempre più brutto? Il film è costruito su Albanese, che ripaga con la sua performance e accetta di lavorare in Albania, gag sul suo cognome e amara autocitazione di Amelio che, oggi, ritrae il percorso inverso di Lamerica.
