Drammatico

L’INTENDENTE SANSHO

Titolo OriginaleSansho Dayu
NazioneGiappone
Anno Produzione1954
Durata120'
Tratto dadall'omonima leggenda riportata da Ogai Mori
Fotografia
Scenografia

TRAMA

In viaggio per raggiungere il padre, due bambini e la loro madre sono catturati da alcuni mercanti di schiavi. I piccoli Zushio e Anju vengono venduti al tirannico Intendente Sansho. Passano dieci anni. Venuta a sapere che la madre è forse ancora viva, Anju vuole convincere il fratello a tentare la fuga.

RECENSIONI

Nostra madre ci chiama.
- È il rumore delle onde.

(dialogo fra Anju e Zushio)


Che la vicenda de L’INTENDENTE SANSHO si svolga nel Giappone dell’XI secolo è dettaglio poco rilevante, a dispetto dell’ammaliante eleganza scenografica: più interessante è il fatto che, come sottolinea il cartello posto in apertura, le peripezie di Tamaki e dei suoi figli abbiano luogo in un’epoca in cui l’uomo ignorava il proprio valore. A ragione Noël Simsolo definisce L’INTENDENTE “il film più violentemente politico” di Kenji Mizoguchi: l’opposizione fra potere e giustizia è narrata tramite mezzi puramente cinematografici. L’immagine di alcune pietre segnala e insieme nega il passaggio del tempo: nell’immobile dominio dell’Intendente (arbitro assoluto della vita e della morte degli schiavi, e a sua volta servo gongolante interamente sottomesso all’autorità del suo padrone, il Ministro della Giustizia – terribile ironia -), come in tutti i luoghi in cui gli esseri umani sono bestiame di poco prezzo (gli schiavi che tentano di fuggire sono marchiati a fuoco), l’esistenza non è che ciclica ripetizione d’interminabili sofferenze.
Solo la parola (e la scrittura: l’autorità insita nella firma imperiale posta a protezione del tempio, la gratitudine dei contadini nei confronti del padre dei protagonisti, da cui hanno imparato a leggere e scrivere, la furia con cui gli sgherri dell’Intendente distruggono i cartelli recanti l’editto del nuovo governatore) può tentare di redimere un mondo dilaniato dalla capricciosa brutalità dei potenti. Il padre di Zushio e Anju esercita il propria potere con un senso di giustizia che lo condanna all’esilio, ma non per questo rinuncia a trasmettere ai figli il proprio messaggio:tutti gli uomini sono uguali e hanno diritto alla felicità; occorre essere severi con se stessi, generosi con gli altri.


Zushio, spirito inquieto (alla sua prima apparizione è isolato dal gruppo delle donne della famiglia), si abbandona alla disperazione che la condizione di schiavo gli ispira. Si allontana dalla sorella (che trova nella schiava Namiji una figura materna) e rimuove il messaggio affidatogli dal padre: diventa a tutti gli effetti, dopo la partenza di Taro (il figlio dell’Intendente, che rifiuta il proprio deprimente retaggio per farsi monaco), l’allievo del tiranno (è il giovane a infierire con sprezzante indifferenza sull’anziano servo che ha tentato la fuga). Anju, spinta da un amore che arriva al sacrificio della vita (un gesto con cui la fanciulla obbedisce all’ammonimento paterno, rovesciando la raccomandazione rivolta dal genitore a Zushio: proteggi tua sorella), ricrea il proprio legame con il fratello dandogli la forza di ritrovare se stesso (la memoria dei genitori) e i mezzi per applicare i precetti del Padre.
La lezione del Padre (come l’immagine del Dio di Misericordia, veicolo dell’agnizione conclusiva) trasforma le persone che entrano in contatto con essa (esemplare la “svolta” di Taro, maturata dopo avere ascoltato il racconto di Zushio e Anju), ma la parabola dell’INTENDENTE è profondamente pessimistica: la vittoria della giustizia è effimera illusione (la festa degli schiavi affrancati sfocia in un incendio), come testimoniano Taro, che, profondamente deluso dal mondo, sceglie il sacerdozio, e Zushio, che lascia la carica di governatore per mettersi alla ricerca della madre. È l’Intendente, antieroe eponimo, a trionfare, sebbene deposto ed esiliato: incapace di comprendere le ragioni della giustizia (deve essere folle: così commenta la notizia della liberazione degli schiavi deliberata dal nuovo governatore), riassume la posizione della maggioranza degli uomini di fronte a chi tenta di abbattere una legge ingiusta, strettamente legata alla vana pompa di un potere sordo alle sofferenze dei miseri (il primo, disastroso tentativo di Zushio di ottenere udienza da parte del Primo Ministro).


Prima ancora che una parabola politica, però, L’INTENDENTE è una grande sinfonia per immagini e suoni, che (nota Jean-Michel Frodon) cela sotto l’apparenza di un racconto classico e saldamente melodrammatico un’anima oscura e sfuggente. La struttura spazio-temporale obbedisce al flusso dei sentimenti e dei ricordi dei personaggi, proponendo audaci accostamenti (il primo flashback, che irrompe collegando la corsa del tredicenne Zushio a quella dello stesso personaggio, bambino, anni prima, e si chiude sulla figura della madre, con cui si torna al presente: il ricordo del padre collega in muta solidarietà i membri della famiglia); la macchina da presa si muove ieratica, frantumando e ridefinendo senza tregua le coreografie del profilmico (la danza in onore dell’inviato del Ministro, confinata sullo sfondo per soffermarsi sulla cupidigia dell’ospite e sul disgusto di Taro), costruendo geometrie che non si limitano a lusingare l’occhio ma esprimono precise contrapposizioni (vedi, nel primo flashback, la distanza del Padre dagli altri funzionari, sottolineata tanto dalla tetra simmetria delle inquadrature quanto dalla smagliante fotografia); il découpage solitamente invisibile nella sua essenzialità si fa frenetico (senza perdere un’oncia della propria perfetta compostezza) al momento della separazione di Tamaki dai figli.


Il trattamento della voce svolge un ruolo centrale nell’architettura dell’opera. Il richiamo di Tamaki (Zushio! Anju!: le vocali finali si allungano in suoni che hanno “qualcosa di mite e di selvaggio insieme”, per riprendere le parole con cui Thomas Mann descrive ne La morte a Venezia un altro richiamo rivolto a un fanciullo) subisce un’evoluzione minuziosamente analizzata da Michel Chion ne La voix au cinéma (Paris, Editions de l’Etoile, 1993): secondo lo studioso francese, “la voce della Madre (…) sconvolge i limiti, attraversa il tempo e lo spazio”, si separa dallamaterialità del corpo di Tamaki e acquista vita propria, riproducendosi nella mente dei figli a partire da rumori naturali (il canto degli uccelli, il mormorio delle acque) e brandelli di ricordi (la preparazione del riparo per Namiji, che evoca l’ultima notte passata con la madre), rivestendosi delle note di un canto che passa di bocca in bocca (al pari della leggenda su cui è basato il film) e conduce Zushio fino all’altrimenti irriconoscibile figura materna, in uno dei finali più strazianti e belli mai realizzati.

Quando alla fine del film Zushio ritrova sua madre in riva al mare, guidato dal suo canto, Mizoguchi cancella il rumore del mare, pur vicinissimo e visibile – come se la voce occupasse effettivamente il posto di quel rumore di onde udito da Zushio [nella prima parte del film].

La voce e la riva. C’è una cosa in questo film che si riferisce in modo particolare al mito delle Sirene, e di cui, per quanto sappiamo, si parla raramente: è il fatto che sono creature del limite fra la terra, come corpo solido, circoscritto, e il mare, che è il non circoscritto, l’informale. Le Sirene abitano dunque il limite che invitano a negare, poiché invitano alla confusione: della terra con il mare, della parola con la voce.

Nessuno al cinema ha fatto risuonare la voce della Madre come (…) Kenji Mizoguchi.

Michel Chion, op. cit.