TRAMA
Nell’odierna Beirut, un insulto spinto agli estremi porta in tribunale Toni, un libanese cristiano, e Yasser, un profugo palestinese. Tra ferite nascoste e rivelazioni traumatiche, il circo mediatico che accompagna il caso porrà il Libano di fronte a una serie di disordini sociali che obbligheranno Toni e Yasser a riconsiderare la loro vita e i loro pregiudizi.
RECENSIONI
Il cinema come manifesto delle ragioni di un conflitto. È quello che accade nell’opera di Ziad Doueiri in cui, per motivi apparentemente futili, un libanese cristiano e un profugo palestinese hanno un diverbio che degenera e sfocia in un caso nazionale. Teatro della vicenda è una Beirut bollente, pronta a esplodere a causa della difficile convivenza fra uomini e donne di origini, culture e religioni differenti. Ferite troppo recenti per essere rimarginate impediscono alla razionalità di prendere il sopravvento e di cercare, e trovare, una soluzione razionale. Non aiuta il maschilismo imperante, tema sotterraneo e intrinseco alle dinamiche rappresentate che il film affronta trasversalmente. Con un equilibrio fin troppo calcolato, ma necessario per non inquinare l’universalità dell’opera, il film scava su ragioni e torti cercando non tanto un’equità ma il non venir mai meno della dignità dei personaggi. Ed è proprio su questo aspetto che Ziad Doueiri, già assistente alla regia per Quentin Tarantino ma poco noto al pubblico occidentale, pone l’attenzione.
Ciò che colpisce maggiormente è quindi la capacità di sviscerare ombre e luci rispettando le parti in campo e la infiammabilità del tema, in quanto nessuno, ed è un concetto che nell’arco del film viene più volte espresso, ha l’esclusiva della sofferenza. Dal punto di vista visivo, nonostante buona parte del film si svolga nelle aule di tribunale, il regista adotta uno stile dinamico, con una macchina da presa mobile capace di esaltare ed enfatizzare ad arte gli stati d’animo, sia dei personaggi che dello spettatore, attraverso un ritmo che non viene mai meno. Ma non sono gli aspetti formali il punto forte del film, in fondo solido ma classico dramma processuale (non a caso uno dei riferimenti di Doueiri è stato Il verdetto di Sidney Lumet), quanto il contenuto. Cinema che può non piacere, perché smaccatamente desideroso di mandare un messaggio e quindi a rischio didascalia, invece apprezzabile proprio per il tentativo di sviscerare la complessità rendendola comprensibile anche per un pubblico poco avvezzo con le questioni medio orientali. Un’opera quindi importante proprio per quello che dice, in cui il cinema viene utilizzato come strumento comunicativo per fare chiarezza mantenendo la giusta distanza. In un equilibrio così precario, colpisce che al Festival di Venezia, dove è stato presentato in Concorso, la Giuria abbia deciso di sbilanciarsi a favore di uno dei due protagonisti premiando Kamel El Basha, interprete della parte palestinese del conflitto.
