TRAMA
Giovane annunciatrice televisiva si innamora di uno scrittore di mezza età, “felicemente” sposato, “fedelmente fedifrago” e moderatamente perverso. Ma è assediata da un giovane e ricco borghese che ha sempre ottenuto tutto ciò che desiderava nella vita…
RECENSIONI
Oramai sembra assodata verità storico-critica: quando Chabrol, sempre più griffe di famiglia, ricomincerà a sorprenderci avrà inizio una nuove era nella storia della cinematografia europea. Per il momento, se non fosse per le diverse ambientazioni o per cambiamenti nel cast (finita l'era Huppert, è iniziata quella Magimel!) finiremmo per considerare la sua produzione cinematografica degli ultimi dieci anni un unico corpus, praticamente l'erezione di un monumento a se stesso: stesse tematiche (lotta di classe riveduta e corretta, da vecchio marxista disilluso), medesima forma piana, per non dire piatta, uguale dipanarsi del racconto, ellittico, per non dire difettoso (vedi buchi di sceneggiatura qua e là).
In questo caso, riadatta il poco conosciuto ed interessante The Girl in the Red Velvet Swing (1955) di Richard Fleischer, con una luminosa Joan Collins ed il notevole duetto maschile Ray Milland/Farley Granger, film uscito in copia restaurata nelle sale francesi in contemporanea al remake chabroliano. Presa tra due fuochi (una vera passione ed un ripiego), tra due 'Poteri' (Intellighenzia da un alto: lo scrittore snob, cinico e perverso, egotista ed ipocrita interpretato da François Berléand; Alta Borghesia dall'altro: il 'fils à papa' psicotico, con trauma infantile alle spalle, che ha il volto di Benoît Magimel, personaggio anacronistico ed eccessivamente affettato), la povera Ludivine Sagnier vive una lacerazione che resta straziante sulla carta, non riuscendo quasi mai a raggiungere un'intensità da melò (ma forse non era tra le aspirazioni del regista) e senza nemmeno il glamour e l'eleganza dell'eroina dell'originale fleischeriano. Nessun barlume neanche nel simbolico finale, più didascalico e meno efficace dal punto di vista visivo dell'originale (gioco di prestigio circense al posto della più suggestiva altalena), quando la poveretta si appresta ad essere 'tagliata in due' e versa una lacrima con tanto d'inutile interpellazione a chiamare direttamente in causa uno spettatore indifferente.
Poca tensione, lunghi dialoghi/cicaleccio, mistero latitante ed un cinismo diffuso che odora più di qualunquismo che di vegliarda saggezza.
Ludivine Sagnier, musa desnuda di François Ozon in Swimming Pool, è ancora una lolita in grado di far perdere la testa agli uomini. Ha una naturale freschezza che la rende irresistibile, ma se diventa una dark-lady è per amore, e senza troppa consapevolezza. Nelle sue azioni non c'è calcolo, ma un cedere all'istinto, anche quando nell'impossibilità di avere uno scrittore di mezza età cede alle lusinghe milionarie del rampollo squilibrato di un'agiata famiglia. Con la consueta capacità di scavare nei chiaroscuri dell'animo umano, Claude Chabrol torna ad accendere i riflettori sulla media borghesia di provincia. A dominare sono i toni della commedia, con piacevoli scambi di battute e una caratterizzazione dei personaggi che riesce ad essere lieve senza scadere nella superficialità. Certo, la sceneggiatura di Cécile Maistre e dello stesso Chabrol è meglio del soggetto, che in fondo racconta con una certa prevedibilità gli esiti di un classico triangolo. In particolare la seconda parte finisce per risentire della successione ritmata, ma non proprio mordace, degli eventi e arriva a un punto in cui sembra non saper più dove andare a parare per concludere la vicenda. A sostenere slanci passionali, rinunce, tradimenti, lacrime, sorrisi e pure omicidi, però, c'è la bravura degli interpreti. La Sagnier si conferma provocante ed espressiva, con un piglio spontaneo che la rende molto credibile. Benoît Magimel trova un ruolo finalmente dinamico e François Berléand è un perfetto sornione dall'aria vagamente perversa. Discutibile e posticcio lo spettacolo di magia che conclude il film. Secondo le intenzioni di Chabrol, come spiegato in conferenza stampa al Festival di Venezia dove il film è stato presentato Fuori Concorso, "è un gioco tra profondità e superficie e dimostra la scissione della protagonista non solo tra due uomini, ma tra se stessa e la sua immagine". Nei fatti sembra un tentativo un po' goffo di creare un dissidio in realtà inesistente. La protagonista, infatti, ha sempre ben chiaro dove stanno sia la ragione che il sentimento e se sceglie il quieto vivere è solo perché il sogno d'amore è destinato a restare tale. Uno di quei casi un cui il personaggio finisce per vivere di vita propria superando le intenzioni del suo creatore.
Oggi il cinema di Chabrol, generalmente accusato di immobilità, sembra al contrario camminare in direzione precisa: l'espandersi tumorale del concetto di menzogna. Le Fille Coupee en Deux è un film/bugia. Affermare il falso, stavolta, non significa conservazione né vizio ma è una procedura istintuale, incasellata in automatismi interiori, che accade quasi per determinismo; è così che il verbo "mentire" si astrae e slitta su dimensione teorica. Lo schermo mente. Ogni inquadratura, espressione, dialogo sembra orientato a occultare il palese: Gaudens improvvisa un'aggressione notturna, Gabrielle lo respinge con risentimento, lui avanza le sue scuse, lei le accoglie e si scambiano comunicazioni sentimentali. Tutto falso. Il ruolo delle parti, questo vorticoso dissimulare a vicenda, suona pienamente consapevole (anche negli attori) e rende plausibili le proprietà dei personaggi, che si tingono di macchietta per volere loro, non dell'autore. Una differenza siderale; il regista non racconta figurine ma soggetti mentitori, tanto insinceri da accostarsi alla caricatura, e proprio per questo sfaccettati e compiuti. Nell'eterna dissezione della middle class, nella continua necroscopia della provincia, il fatto nuovo è la frastornante radicalità del contesto: modi colloquiali, frasi di circostanza, dialoghi ambientali, voci che raccontano storie a cui non è dato credere. Due esempi brillanti: il pranzo incrociato tra lo scrittore e il pupillo borghese, significativamente dominato dalle opposte faziosità (la felicità coniugale di Charles, l'infanzia sbandata di Gaudens – cosa è davvero vero? - ), e la lunga esposizione del fratricidio, riferito tra le lacrime, che sprigiona presto il sospetto di montatura. Attenzione: il succo perverso del film, il sesso di gruppo e la dominazione erotica, è accennato e risolto in dissolvenza o delegato fuori campo. Scelta pudica? No, piuttosto l'intransigenza dell'inganno: la verità non merita la scena, la falsità ha invaso tutto, il morbo è in fase terminale. E sui frantumi della realtà il maestro si muove a suo modo e dirige un cast spaziale, insegue le note ascendenze (sulla sequenza del doppio mazzo di fiori, inoltre, l'ombra di Truffaut), dispone l'impagabile ritmo, fluido e avvolgente, molto parlato, e tra minuzie, scatti, e primi piani, procede quindi a collezionare sintomi e lievitare la minaccia.
Per restare al "tardo Chabrol", dove la spaventosa autorità linguistica (e meta) abbraccia con estasi la semplice riuscita del film, se lo accostiamo a La commedia del potere scopriamo i segni comuni (un'esibita fisicità grottesca a presentire le miserie private – la dermatite dell'industriale corrotto come l'onicofagia dell'erede viziato -, ancora il gioco sui nomi, che contengono il sostantivo "deni" = negazione) ma anche un ampio distacco: l'angelo punitore Charmant-Killman, seppure controverso e sfuggente, era comunque seminatore di sincerità. Qui non ve ne sono. Dunque il finale (ovvero un'illusione) riassume, conclude e idealizza l'intero ordito di inganni che è poi il film: la ragazza non viene tagliata in due, la ragazza non sta piangendo ma ridendo. Più indietro, Gabrielle si riferiva al cognome fasullo di Charles affermando: "Non ti sei scelto una particella qualsiasi". Charles Saint-Denis: la menzogna è santificata. Mente perfino il titolo italiano.
Si dice che Chabrol, una volta penetrato nella patina che l’ avvolge, scavi nel cuore della borghesia. Che guardi oltre al guscio per scovare in profondità. Eppure, lungi dal fare del mero psicologismo, il suo occhio è impietosamente distante, freddo, difficilmente empatico con la materia. Come se non fosse la profondità, ma la superficie ad interessare il suo cinema. Di un behaviourismo prossimo all’entomologia, lascia che i suoi personaggi si delineino da sé, elude lo svisceramento a tavolino di motivazioni ed antefatti, salvo ricorrervi per depistare, con verità urlate quanto scricchiolanti. Annichilisce ogni tentativo di semplificazione, permette alle contraddizioni di coesistere, sotto lo stereotipo cela abissi tanto più feroci quanto non detti: fonde e confonde calcolo e sentimento, nasconde i perché, pone l’alone dell’incertezza sull’entità delle radici. Ciò che si percepisce è Gabrielle come pedina di un gioco che può solo subire[1]. E noi con lei. Coupée en deux: divisa fra due uomini, certo, ma dilaniata soprattutto tra la propria essenza di soggetto e quella di mero oggetto (sessuale e narcisistico per Charles, follemente strategico per Paul). Noir in superficie, dove la menzogna è l’unica verità: a Chabrol non rimane che registrare il teatrino delle false apparenze, giocando disilluso il medesimo gioco, sviando lo spettatore con gratuite insistenze su inutili (a posteriori) dettagli, con sottolineature musicali fuori luogo, con un incipit che sa di tragedia, ma che sfocia nella rassegnazione di un male gretto quanto nascosto nelle logiche meschine e inaccessibili del potere. Attriti stilistici ludici e ironici, in perfetta armonia, però, con la dissacrante e amara vena di sdegno che pervade il film. Momenti disarmanti: l’irrompere del linguaggio televisivo nella sobria eleganza del film, Paul che viene intimato da Frank a seguirlo in macchina (sintomo superficiale di un rapporto ambiguo che Chabrol affoga nella reticenza), Charles che giustifica l’impossibilità di lasciare la moglie con un “Non posso rimproverarle nulla”, la serata di beneficenza che dà luogo all’assassinio. L’ elenco è, a forza, difettoso. Come comunque difettoso sarebbe il carico di aggettivi cui bisognerebbe ricorrere nel tessere gli elogi del reparto attoriale, senza eccezione alcuna. Più comodo soprassedere.
[1] la sua visita rifiutata da Paul e il silenzio di Chabrol sugli antefatti del rapporto tra Paul e Charles minano seriamente, agli occhi dello spettatore, la purezza del sentimento che unisce il personaggio di Magimel a quello di Saigner, in favore di una lettura differente: Gabrielle potrebbe essere il pretesto individuato da Paul per saldare un fantomatico conto con Charles.