TRAMA
Olivia, un’immigrata filippina senza documenti con il terrore di essere rimpatriata, lavora come badante per un’anziana ebrea russa a Brighton Beach, Brooklyn. Sfumata la possibilità di sposare un americano per ottenere la carta verde, inizia una relazione con Alex, nipote dell’anziana e dipendente in un mattatoio, il quale però non sa che lei è una transgender.
RECENSIONI
Scrutando il cosiddetto Nuovo Cinema Filippino – presenza ormai quasi immancabile nei palinsesti festivalieri – è facile intravedere un unico filo conduttore, un'unica molla che accomuna le scelte autoriali dei singoli registi. Perché i vari Kinatay – Massacro, Ma' Rosa, The Woman Who Left – La donna che se ne è andata, Honor Thy Father e Pamilya Ordinaryo (che vinse nel 2016 le Giornate degli Autori veneziane) sembrano tutti trainati dalla medesima forza centripeta. Ovvero la denuncia della condizione disagiata di un Paese logoro e contraddittorio, irto di iniquità e storture. A ciascuno il suo, partendo sempre dal realismo: Brillante Mendoza scava negli orrori della società flirtando col voyeurismo e una messinscena sovente ai limiti della pornografia (in senso, ovviamente, etimologico); Lav Diaz trasfigura il quotidiano modificanone i connotati e dandogli un nuovo e personalissimo significato; Erik Matti mette a nudo la religiosità correlandola con la morbosità e la corruzione. È un cinema della presa di coscienza e della conseguente ribellione, e a suo modo anche Isabel Sandoval – al terzo lungometraggio, dopo Señorita (2011) e Apparition (2012) – si fa portavoce di questo sentire e ragionare comune. Anche se Lingua Franca vorrebbe essere tante cose, per qualcuno pure troppe, in primissima battuta il racconto di una donna “irregolare”, fuggita dalle Filippine verso Brooklyn e ora badante a Brighton Beach col costante terrore di essere rimpatriata. È lo spunto più immediato, il punto di partenza del film da cui deflagrano gli altri dilemmi. La protagonista Olivia (la stessa Sandoval) paga mensilmente un cittadino americano affinché la sposi, in modo da ottenere la Green Card, e si confronta con le altre filippine che nel frattempo ce l'hanno fatta e si sono così assicurate un futuro migliore e più stabile.
Ma le mire sono ancora più nobili e alte: Lingua Franca è anche un pamphlet sulle colpe della politica anti-immigrazione di Trump, sulla mancanza di una seconda possibilità per chi ha sbagliato (Alex e il suo lavoro al mattatoio) e sull'abbandono in età senile (l'anziana Olga accudita da Olivia, interpretata dalla veterana Lynn Cohen). Tracce veritiere, a cui viene concesso un degno anche se non molto approfondito sviluppo, ma anche un po' falsificatrici e depistanti, perché la fondante chiave di lettura del film è quella relativa alla transessualità: Olivia è infatti una transgender, che tra solare ottimismo e agrodolce pragmatismo intraprende una relazione sentimentale inquieta proprio con Alex. L'amore e il riconoscimento della propria identità sessuale sono dunque la “lingua franca” della protagonista, il terreno fertile in cui far crescere – idealmente – una comunicazione e una condivisione più sana e libera. Forse Sandoval, in quest'opera dalla chiara impronta autobiografica piena di potenziale drammatico, mette in scena una se stessa del passato, che c'ha creduto veramente ma che inevitabilmente ha dovuto aprire gli occhi. E questo spiegherebbe anche il tiro nostalgico della pellicola, che premia la delicata sensualità e il respiro sommesso, la misura e la timidezza, in opposizione al disegno aspro dei panorami esterni. La regista culla un alter ego che non c'è più, permettendo a chi guarda di scoprirne sensibilità e umane debolezze. La forza dirompente di Lingua Franca sta tutta nella sua delicatezza e nel suo tatto, nei silenzi e nei sottintesi capaci di creare con pochi tratti una connessione intima e sincera. Un esercizio di cinema coinvolgente, stimolante e carismatico, diseguale nella sua struttura e nel suo svolgimento ma di fronte al quale difficilmente si può restare indifferenti.
