Noir, Poliziesco, Recensione

L’INFERNALE QUINLAN

Titolo OriginaleTouch of Evil
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1958
Durata93'

TRAMA

In una cittadina al confine tra Messico e USA un uomo piazza una bomba nel bagagliaio d’un auto che subito parte per attraversare la frontiera. Esplode. Mike Vargas, in luna di miele con la moglie Susan, poliziotto messicano accetta di collaborare all’inchiesta ma se la deve vedere con il mostruoso Hank Quinlan il cui fiuto è pari solo alla sua distorsione morale.

RECENSIONI

Nel 1957 Orson Welles riceve l'offerta di una parte in una produzione Universal tratta dal romanzo Badge of Evil di Whit Masterson. Un modo per accalappiare Charlton Heston a protagonista, accetta ma a condizione di Welles regista. A questo punto con la speranza di poter ricominciare a girare in patria - a dieci anni dal Macbeth - l'ostracizzato regista vagabondo si trova tra le mani una sceneggiatura di Paul Monash che non gli piace e quindi deve riscrivere. Un solo compenso come attore, nulla per la sceneggiatura e per la regia. Le riprese vanno per il meglio, il notevole gruppo d'attori (Calleia, Tamiroff, Leigh, Heston, Cotten, Zsa Zsa Gabor) funziona a dovere, si aggiunge loro, in una parte creata ad hoc (come quella di Dennis Weaver come gestore del motel) Marlene Dietrich come Tanya, la zingara amica di lunga data di Quinlan, cui viene anche affidata l'ultima cruciale battuta del film. I problemi, al solito, wellesianamente non si fanno attendere: il montaggio sfora d'un mese intero, il regista dopo un rough cut abbandona la pellicola per altri impegni; la Universal con a capo Walter Muhl decide che qualcosa non funziona, vengono girate delle pezze d'aggiustamento da Harry Keller, il montaggi affidato ad Ernst Nims. Welles, visto cosa stava accadendo alle sue speranze di lavoro stabile, non appena visionati i 108' di Touch of Evil, scrive un puntigliossimo ed accorato memo di 58 pagine indirizzato al cap Universal ed la montatre che già con lui aveva lavorato su Lo Straniero. Inutile dire che ciò non sortì nessun effetto al pari delle lettere scambiate con Heston il quale dopo aver resistito si trova a dover accettare i piani dello Studio. Nel 1958 viene dunque distribuita una versione di 85'. Riscoperta negli archivi UCLa nel 1975 la prima "stesura" viene proposta come versione originale, corrispondente ai voleri del regista (MAI consultato dalla Universal). Solo nel 1998 Rick Schmidlin (produttore) e Walter Murch (montatore ed esperto del suono, Apocalypse Now, La Conversazione) portano a termine un lavoro di ricostruzione che si basa sul memo originale e su altre fonti per giungere ad una presumibile purezza. Distribuito in Italia nel 1998 in versione sottotitolata. La copia in possesso Mediaset è quella "storica". Differenze innumerevoli, a partire dall'incipit non più in condivisione immagini/titoli per arrivare al più ampio spazio dedicato al ganster Grandi, fino all'eliminazione di dieci fotogrammi dall'inquadratura della suo viso strangolato.
Rick Schmidlin parla del suo lavoro (in inglese)
Walter Murch parla del lavoro sul sonoro (in inglese)
Il memo di Welles in versione integrale  (nel bel sito wellesnet.com)
Una storia curata della rinascita, a cura di William C. Martel

L'Infernale Quinlan è, ne abbiamo dato conto in breve, anche la sua vicenda commerciale e storica.
Quinlan è un'altra grande figura wellesiana, immersa in un mondo viscido e decadente in cui il dominio è della sola istintualità. Vargas si scontra con il collega brutale e sanguigno, per vincere e giungere alla verità, se tale è, conduce al tradimento Menzies, l'amico di Hank e tutto s'avvolge nel delirio che sembra la continua agonia d'un alcoolizzato. Susan sarà il vittima del viluppo in cui la redenzione è più fetida del peccato.
Vicende di sconfitte e comicità nera, in una ambiente alla deriva, tra pozzi petroliferi, tralicci ed ombre a ragnatela, all'incrocio tra il gotico e il crimine, un percorso latente nel cinema americano (da Psycho a The French Connection per dare ragione a J. Naremore) da allora che qui esplode trasformando la consueta crime story attraverso l'espressionismo, il montaggio e la stratificazione delle inquadrature (e dei piani sequenza, nuclei da cui si dipartono le schegge che impazziscono la fiction), oltre alle strepitose interpretazioni, per giungere ad un globo la cui complessità morale merita ben più d'una recensione, d'un consiglio.

Thriller dalla grande suspense, figuratività da capolavoro maledetto: gli avvenimenti sono posti sullo stesso piano della forma e della fisicità delle presenze (viventi ed inanimate), ogni sequenza deborda di significanti metafore, gesti, oggetti e chiaroscuri, nel segno del barocco che deforma, arricchisce enunciato ed enunciazione fino al compimento dell’ambiguità, della complessità che vada oltre la trama pura e semplice. Il tema dell’abuso del potere è caro all’autore, il grigiore visionario si staglia in inquadrature ed ambienti claustrofobici, con una miriade di sensazioni evocate attraverso pulsioni inconsce, presenze che riempiono mente e sensi senza essere richiami intellegibili. Il catalizzatore di tutto ciò è il personaggio di Quinlan, magnificamente interpretato da Welles, essere repellente nell’aspetto e nei modi che, però, alla fine spiazza nei moti di cuore (affezionato all’amico poliziotto, accusa solo i colpevoli). Quinlan ha la stessa possente, sgradevole presenza materiale della pellicola, che vive di attrazione/repulsione: una figura non necessariamente negativa e fatta della stessa pasta di delinquenti, psicopatici, drogati e alcolizzati; ambigua (e) parte del Male presente nel nostro mondo, non al di fuori di esso come Hollywood ha voluto farci credere. Welles anticipa, così, la filosofia di fondo del violento cinema metropolitano anni settanta, pur non soccombendo come quello al cinismo e al pessimismo: condanna e, al contempo, restituisce con compiacimento l’impatto negativo dell’Inferno. Il difficile equilibrio è ottenuto attraverso la sotterranea ironia, i sorrisi stuprati, la critica inerme di fronte alla ferocia additata: nel mirino di Welles, in realtà, c’è lo spettatore che giudica dalle apparenze (Quinlan) e adotta lo sguardo “sporco” sulla sensualità di Vivien Leigh (le soggettive degli sbandati di Grandi, del maniaco dell’albergo); il suo universo è volutamente truccato, esagerato, espressionista (contorsione di immagini, sguardi, scavi psicologici, trame simboliche) per far calare la maschera a chi guarda (l’attore-regista si imbruttisce, Charlton Heston interpreta un messicano, Marlene Dietrich diventa bruna). Se si spengono le luci, non c’è la Luna ad illuminare il set ma una fonte luminosa ad intermittenza che sfuma i contorni, crea zone d’ombra, confonde le idee. Scene da antologia: i piani sequenza in apertura e nell’appartamento del ragazzo messicano; la scena gotica e perversa nella stanza del night club di Grandi; quella terrificante in albergo, con Vivien Leigh alle prese con la banda giovanile ed uno psicopatico sessuofobo (prima dello Psyco di Hitchcock, con la stessa attrice…); la scena del paesaggio che si scopre essere un riflesso nella finestra; quella della scatola di scarpe. Non sarebbe Welles senza traversie produttive e distributive: fu Heston ad imporsi per averlo dietro la macchina da presa, ma la produzione tagliò venti minuti, assunse Harry Keller per rigirare alcune scene e fece rimontare il tutto a Ernst Nims. Solo nel 1999, grazie a Walter Murch, è stato possibile vedere l’opera secondo Welles.