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L’INCREDIBILE HULK

TRAMA

Dopo essersi rifugiato nella zona delle favelas brasiliane, continuano le disavventure del dottor Banner alle prese con il suo alter ego verde e con l’esercito degli Stati Uniti che vorrebbe sfruttarne le devastanti potenzialità per scopi biecamente bellici.

RECENSIONI

(Olt)raggi verdi

Partiva dall’idea di sequel (purtroppo o per fortuna) questo The Incredible Hulk di Marvel Enterprises e Valhalla Motion Pictures siglato Louis Leterrier e scritto da Zak Penn, specialista in comic movie, ma di fatto i punti di tangenza col precedente angleeiano sono davvero pochi. L’ “intimismo”, se così è lecito definirlo, con la deriva psicopatologica del character credibilmente disegnata su/da Eric Bana, è il tratto interessante - probabilmente l’unico - che si è tentato di conservare chiamando in causa il placido nervosismo di Norton, elemento che viene incautamente dissipato in una sorta di seconda parte della cine(computer)graphic novel, nella quale si assiste non tanto a uno scollamento diegetico del testo, ma a un’inversione di rotta estetica e di senso. Cinema vs fumetto(ne). Nell’incipit a tenere il campo (come inquadrature e conseguente montaggio di esse) è l’eterno motivo hulkiano della fuga, della doppia fuga dello scienziato Bruce Banner dall’esercito degli Stati Uniti e soprattutto dall’ospite clandestino e ingombrante che si presentifica come un gigantesco Hyde dalla rabbiosità incontenibile. Il fattore del doppio schisico in quanto tale non interessava Lee e Kirby e non interessa Zak/Leterrier, la prospettiva psicologica e (dunque) narrativa è quella della liberazione dal mostro/fantasma verde, e di questo da chi ne vuole comprimere la libertà imprigionandolo come una cavia da laboratorio. In questa chiave l’escape movie funziona benissimo in una sua prima fase con Banner che cuore pavido fugge nel dedalo delle architetture povere di Rio, descritta con un ritmo fulmicotonico grazie a sequenze montate in affastellante ipervelocità, poi la dynamis del film smarrisce la sua forza propulsiva e cine(ma)tica incagliandosi nella struttura del comic di grana grossa, dei cliché della love story, della bella e la bestia, del generalissimo senza pietas, e dell’inevitabile scontro col supervilain di turno (e il ruolo dello smargiasso tocca a un improbabile Tim Roth). Il nascondimento intelligente dell’eroe pigmentato di verde nella prima parte e “svelato” in qualche modestamente sobria soggettiva viene sormontato dalla solita ipertrofia del vedere verde, perché il mostro bisogna mostrarlo, altrimenti che mostro è?
Divertitamente banali gli in-joke distribuiti nella pellicola con Lou Ferrigno, Paul Soles (voce di Hulk nella serie animata dei sixties) e Downey Jr./Tony Stark/Iron Man che paventa l’imminente costituzione degli Avengers. Minaccia rimandata al 2011.

Hulk è dominato da un’insostenibile fuga: quella di Bruce Banner, emarginato dalla propria irascibile mutazione e quella di Louis Leterrier, pleonastico nel dinamizzare un film che vive di un incredibile vuoto ideativo. Soffermarsi sull’omone verde della Marvel è di partenza un esercizio di clichè tematico, perché di caratterizzazione, nel personaggio in questione, c’è poco e niente; inoltre, reiterare i classici motivi dozzinali del doppio, del diverso (sociale e antropologico), dell’amorale scientifica e militare, risulta tempo sprecato. Perlomeno Ang Lee aveva provato a donargli un’identità più stabile, immergendo la propria riflessione dentro la creatura, nel suo legame con un rimosso infantile. Il trauma quindi, oltre che fisico/biologico (i raggi gamma), si riservava un piccolo ruolo psichico/mentale. Un viaggio nelle viscere del mostro che invece si presta ad essere rigettato in maniera sbrigativa da Edward Norton, il cui legame con il proprio alter-ego si discretezza nel più banale e siderale uso effettistico-digitale. Hulk e Bruce sono due entità sia intercambiabili (la diversità si confina ad un livello prettamente epidermico) sia divise ( più che far parte della stessa natura, sembrano due personaggi indipendenti). C’è da chiedersi così quale “barbatrucco” possa aver utilizzato la creatività registica per sanare questa debug funzionale; anche perché, di per sé, non ci sarebbe stata materia sufficiente su cui costruire un percorso. Ritorniamo allora al motivo della fuga della quale Leterrier si impossessa per salvare la baracca. E’ tutta una corsa forsennata, che poggia le basi nel tipico cosmopolitismo esotico delle grandi produzioni hollywoodiane (e non solo) per arrampicarsi in una frenetica asfaltatura action, sempreverde nella sua fanfara di esplosioni e scazzottate. Certo, non è che volessimo un remake all’insegna del minimalismo, ma almeno il piccolo privilegio di riuscire a pensare a quello che scorre sullo schermo e non, come masochisti, arrivare a godere delle peripezie visive per evitare le poche pause introspettive (anche i legami interpersonali cadono nella farsa, in particolare la scontata storia con Betty). Insomma fermarsi è pure peggio di scappare: lo stesso Bruce alla fine preferisce incazzarsi che meditare con quella specie di cardiofrequenzimetro…

Fin dal titolo, per stilemi e temi (anche musicali, dato che s’ode per qualche secondo quello, mitico, di Bill Conti), il nuovo Hulk della Marvel (che non gradì il poco spettacolare e serializzabile film di Ang Lee) si rifà alla serie (‘79-‘82) con Bill Bixby e Lou Ferrigno (cameo), alla sua malinconia, al suo senso di solitudine, al suo on-the-road minimalista. Azzeccata quindi la scelta, per redigere la sceneggiatura (cui ha collaborato, al solito non accreditato, il grande Edward Norton), di Zak Penn che, su un altro supereroe, aveva dato il meglio di sé per il fattore umano (Elektra). Il bessoniano Leterrier non ha mire autorali, non piega la materia alla propria poetica (che non ha) come Ang Lee e serve efficacemente un racconto che, come i fumetti, vuole spettacolare e ricco di pathos, amore, rabbia (come il suo Danny The Dog). Azzeccata e originale l’ambientazione, nella prima parte, nelle favelas, con Banner che cerca di controllare Hyde e l’indicazione in sovrimpressione su quanti giorni sono passati senza “crisi”, come si trattasse di una tossicodipendenza.