Commedia

L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNEST

Titolo OriginaleThe importance of being Earnest
NazioneGran Bretagna/U.S.A.
Anno Produzione2002
Genere
Durata94'
Sceneggiatura
Tratto dadalla commedia omonima di Oscar Wilde
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Londra, fine Ottocento. Jack Worthing intende sposare Gwendolen, cugina del suo amico Algernon. C’è solo un problema…

RECENSIONI

Traduttore, traditore: Parker tradisce Wilde, trasformando profondamente il testo di partenza, ma il risultato non è affatto deforme. Con sincero amore e una buona dose di coraggio (indispensabile, vista la perfezione adamantina del film di Asquith datato 1952), il regista rilegge il mirabile play verbale anti-vittoriano ammorbidendo senza troppe melensaggini un universo testuale magnificamente disseccato, piatto nel senso più squisito e consapevole del termine. Ampi tagli nei dialoghi (cadono quasi tutte le battute più velenose), ma i silenzi e i sottintesi dell’opera originale sono esplorati con sensibilità e senso del (tragi)comico, e il libero gioco degli aforismi non stona in un contesto di Eden sacro e profano (numerosi i riferimenti, da Adamo ed Eva a Perseo e Andromeda, agli amori di Venere e Marte) nutrito di Botticelli, di Klimt, della pittura preraffaelita. Qualche battuta d'arresto, tocchi attualizzanti riusciti (la prova d'amore che Gwendolen si infligge) e non (l'auto al posto del treno, con annesse incongruenze dialogiche), qualche parentesi superflua (il fosco passato di Lady Bracknell), ma la direzione degli attori (tutti magnificamente inglesi, al di là di ogni prova anagrafica) è superlativa, e le scene memorabili (il prologo fuggitivo, il 'colloquio' orchestrato da Lady Bracknell, l'arrivo di Jack in campagna, la serenata su testi di Wilde, la ridente stilettata conclusiva) non mancano. Da non perdere i titoli di coda, in cui compare la persona più misteriosa di tutto il dramma.

Oliver Parker, dopo il successo de Il marito ideale, insiste e si cimenta col capolavoro indiscusso del teatro brillante di Oscar Wilde. Ce n'era bisogno? A ben guardare no, perché di fronte a certi meccanismi perfetti c'è poco da fare: o si rimane fedelissimi alla lettera della pièce lasciando fare tutto al testo (ma è necessario supportare questa decisione con un'intelligenza registica che il nostro non ha affatto) oppure si decide, con coraggio, di azzardare, riconsiderando totalmente l'opera; e sì che così il rischio di fallimento è molto più alto ma almeno saremmo sicuri di non trovarci, come in questo caso, di fronte a un'operazioncina commerciale che, assemblata con tutti i crismi del bon ton (la scenografia e la fotografia ivoryana - Pierce Roberts + Arrighi), un cast impeccabile (lady Bracknell - che Almansi, non senza ragione definì "il più grande ruolo comico femminile mai scritto" - è un'inappuntabile Judy Dench, Firth ed Everett riformano la coppia di Another Country) e quel pizzico di trasgressione che non mette in discussione nulla ma che basta a far dire che qualcosa lo si è tentato (poca roba: un tatuaggio sul culetto, l'arrivo in campagna con tanto di mongolfiera, l'inserimento dell'episodio "Gribsby", presente nella prima versione della commedia e poi estromesso, il cambiamento di ambientazione di alcuni dialoghi, una canzoncina), arrivi a scongiurare accuse di molle ignavia accademica. Il film piacerà a chi non conosce il testo - la commedia è meravigliosa e niente e nessuno potrà mai scalfirne lo splendore - ma a chi, come il sottoscritto, quel testo lo conosce a memoria, il giochetto apparirà in tutta la sua vigliacca accortezza, e se poi ha visto la bella e molto earnest versione cinematografica di Asquit con Michael Redgrave, non avrà tentennamenti nel preferire quella a questa, alquanto rozza, parkeriana. Il film ha comunque il merito di ridivulgare presso il grande pubblico quella che, a ragione, può considerarsi una seminale espressione di teatro dell'assurdo: trama e dialoghi, infatti, sono quanto di più arditamente demenziale si possa concepire, ancora oggi, e immaginiamo l'effetto che un tale avanguardistico approccio potesse determinare all'epoca. A dire il vero una cosetta Parker la fa, e nemmeno così trascurabile, cambiando il finale e tradendo la sublime stravaganza del teorema wildiano sulla verità e la menzogna (nell'originale Jack scoprirà di chiamarsi effettivamente Ernest, mentre nel film avviene l'esatto inverso: l'uomo scopre che il nome paterno che gli è stato tramandato è proprio JohnJack e si proclama comunque Ernest, rivelandosi tutt'altro che onesto). Inezie a ben vedere, che non cambiano di molto il discorso su una pellicola che della verve del venerabile Oscar gode del solo sbiadito riflesso. Si stendano pietosi veli sul doppiaggio che scimmiotta il british play con effetti devastanti e sulla decisione di tradurre persino la canzone wildiana che Firth ed Everett cantano alle amate.