Drammatico, Recensione

L’IMPERATRICE YANG-KWEI-FEI

Titolo OriginaleYokihi
NazioneGiappone
Anno Produzione1955
Durata98'
Tratto dadal poema "Ch'ang Hen Ko" di Pai Lo Tien
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Cina, diciannovesimo secolo. Nel tentativo di esercitare un controllo sulla corte dell’imperatore, inconsolabile vedovo, il generale An Lushan fa conoscere al regnante la bellissima Kwei-Fei, somigliantissima alla sua prima moglie. Tra i due sboccerà l’amore, ma le fazioni avverse alla famiglia Yang fomenteranno una rivolta di massa al termine della quale più di una testa cadrà…

RECENSIONI

Agli inizi degli anni cinquanta, in Giappone cominciarono ad uscire i primi film a colori. Dopo alcuni tentativi non riusciti, il nuovo sistema si affermò anche a livello estetico con Jigokumon di Teinosuke Kinugasa, Palma d’Oro a Cannes nel 1955. Il primo film a colori di Mizoguchi segna un radicale distacco dall’uso fino a quel momento esclusivamente “patetico” dei cromatismi: il regista dell’Intendente Sansho non impiega i colori per commuovere, compiacere o sedurre lo spettatore, bensì per declinare in macchie compatte ed abbacinanti di rossi, blu e verdi un’estetica rigorosa già perfezionata, che subisce qui un inevitabile “adattamento” alle nuove esigenze della fotografia (dolly e carrelli e più in generale i movimenti di macchina si assottigliano), senza che tuttavia ne risulti alterato il meccanismo di fondo. Il nucleo di partenza di questo sublime e scabro melodramma storico è di matrice latamente scespiriana: la lotta per il potere, lo spodestamento del vecchio uomo al comando da parte di un figlio senza scrupoli. Come nella Vita di O-Haru, è un’icona ad innescare un lungo flashback esplicativo: il vecchio imperatore, prossimo alla forzata pensione, riattraversa idealmente un passato fagocitato dall’amore per l’eroina eponima, doppio somigliantissimo dell’amata prima moglie. Mizoguchi fa entrare lo spettatore nella fiction cesellata dall’anziano regnante costeggiando prima e penetrando poi nelle stanze del potere, isolate solo da “cortine” di seta, spazio intimo dunque costantemente sottoposto a sguardi indiscreti. La fluidità dei movimenti di macchina sembra rispecchiare la magmaticità dei ricordi. Spazio e tempo del racconto sono indissolubilmente legati: non c’è meccanismo narrativo che non nasca da un luogo o da oggetti gravidi di ricordi, non c’è passaggio temporale che non sia sottolineato da “aperture” spaziali, da carrelli o dolly in grado di connettere eventi e personaggi lontani temporalmente o spazialmente, come se lo sguardo mobile dell’istanza seguisse prima di tutto una temporalità soggettiva, un itinerario interiore.

Nell’hortus non abbastanza conclusus dove metterà in scena un crepuscolo appena suggerito nel prologo, ritroviamo l’imperatore cinquantenne e triste, impossibilitato a suonare melodie gioiose perché oppresso da una malinconia inibente, non essendo ancora riuscito ad elaborare il lutto della prima moglie, l’imperatrice Wu-Hui. La consegna di una statua raffigurante una figura femminile coincide con l’arrivo di una graziosa fanciulla, giunta ad allietare le tediose giornate del regnante. Fin da subito, l’associazione icona/amore ideale è espressa a chiare lettere, quasi a voler prefigurare una successiva idealizzazione/sacralizzazione di una figura umana umile e pura o quanto meno “purificabile”. E’ nella povera sguattera di una piccola stamberga che l’ambizioso generale An Lushan vede una possibile copia della precedente imperatrice, l’unica in grado di trovare un posto nel cuore inaridito dell’uomo. Kwei-Fei, questo il suo nome, non verrà dunque amata se non come rimpiazzo, sostituto, copia? La giovane entra repentinamente in contatto con le spregiudicatezze del sistema (profittate del fatto di essere nata bella… le viene suggerito), ma non si fa illusioni (resterò una vostra schiava, esattamente come quando lavoravo come lavapiatti replica). Una sorta di maîtresse d’altro bordo si perita di cancellare il suo passato (Da oggi non ha più un passato).

Circondato da personaggi ostili che tramano nell’ombra e costretto ad allontanarsi dalla natura in nome di un’alienante ragion di stato, l’imperatore parla di sé attraverso la musica che suona, interpreta il paesaggio traducendolo in note. La brevissima scena della “trascodificazione in musica” degli alberi di pesco in fiore costituisce una sublime sintesi della scarnificazione linguistica mizoguchiana: seduto al centro di un padiglione, l’imperatore non si degna di voltarsi e guardare l’umana bellezza, abbacinato com’è dallo splendore dei colori primaverili; impugnando il proprio strumento musicale, si dirige verso il giardino e, una volta assorbita e codificata l’“immagine” della primavera, la ricodifica in un linguaggio puro ed ideale. La macchina da presa prima lo segue con un breve dolly, poi si allontana rivelando la giovane pretendente trascurata. Con un solo movimento di macchina a seguire una sola azione, il regista è riuscito a connotare un momento che, a livello denotativo, non significherebbe altro che “la passione dell’imperatore per la musica” e la sua sostanziale “sfiducia nella possibilità di ritrovare l’amore”. Grazie a quel movimento che congiunge il “lavoro” artistico dell’imperatore alla bellezza ancora sottovalutata della fanciulla, ovvero stabilisce un legame tra personaggi ancora non entrati in relazione, il regista anticipa quello che sarà il nuovo oggetto di quel processo di “sublimazione” generalizzato senza il quale il protagonista non sembra in grado di sopravvivere a se stesso e ai giochi di potere: la futura imperatrice Yang Kwei Fei. 

La “scoperta” della nuova candidata mette in moto nell’imperatore una sorta di corto circuito tra “ricordo di” (dell’imperatrice defunta), “immagine di” (il ritratto stilizzato della prima moglie) e “copia di” (Yang Kwei-Fei). Avendo già compreso che l’unico linguaggio in grado di comunicare all’uomo qualcosa che non siano cambiamenti nella formazione di governo o misure contro la carestia è quello musicale, la donna non proferisce verbo, nonostante le pressioni dell’imperatore, e delega allo strumento il compito di scalfire il cuore dell’uomo. Riesce nell’intento.Credevo che Wu-Hui sarebbe rimasta l’unica donna che avrei amato esclama l’imperatore. Un bagno purificatore libera Kwei-Fei dalle residue “scorie” del proprio passato. Sarà lei, tuttavia, a liberare l’uomo dalle proprie catene, facendogli riassaporare il piacere delle piccole cose durante i festeggiamenti del primo giorno dell’anno. In quell’occasione, l’imperatore riesce ad intonare una melodia dolce, prime note serene dopo anni di requiem:ho dimenticato di essere un imperatore, mi pareva di essere uno del popolo esclama. La riacquisita felicità comporta la perdita della cognizione del tempo, dunque del senso di precarietà della vita, del ricordo: Mi pare di vivere qui da un’eternità. 

Tale idillio viene bruscamente interrotto dall’irruzione delle questioni pubbliche nel privato, aprendo la seconda sezione del racconto, il cui perno centrale diviene il conflitto tra desiderio e benessere collettivo, tra ragioni del cuore e ragion di stato. Una congiura di palazzo ai danni della famiglia Yang spinge Kwei Fei ad abbandonare l’imperatore e tornare al natio borgo. Non vi riuscirà: sarà l’imperatore a richiamarla, sfidando così il primo ministro ed il governatore. L’eliminazione della famiglia Yang diventa la panacea di tutti i mali. La piazza reclama la testa dell’imperatrice, cui non resta che sacrificarsi per salvare l’amato compagno: un’ultima preghiera, l’invio del fermacapelli come oggetto/ricordo del proprio martirio all’imperatore. Come sempre in Mizoguchi, il tragico gesto risolutivo resta fuori campo. Dell’esecuzione vengono mostrati solo la preparazione (sistemazione del cappio), la disposizione della donna, le sue ultime preghiere, la svestizione: cadono i drappi, un piano ravvicinato rivela una porzione della veste ricamata appena caduta sul terreno e le scarpe sempre ricamate e piumate. Un movimento di macchina, partendo dal dettaglio suddetto, segue lo strascico della veste della donna fino a rivelare le radici dell’albero al quale sarà appesa. La caduta dei suoi gioielli suggerisce, nella sua “figuralità” che è metaforica e metonimica insieme, l’avvenuta impiccagione. Questa morte pacificherà il mio popolo? si domanda l’imperatore, lacerato dal dolore e come definitivamente smarritosi nei labirinti di un potere disumano. Il suo pianto pudico che chiude il lungo flashback sembra dilatarsi a dismisura e coprire l’intero arco di tempo che separa quell’evento luttuoso dal presente da cui nasce il racconto/ricordo di quei fatti. Le lacrime riempiono un’ellissi pluridecennale. Te ne sei andata. Cosa mi resta? Io, detronizzato dal sangue del mio sangue…Questo mondo è dunque di ghiaccio? Kwei-Fei, Kwei-Fei…. Pronunciando questo, il vecchio si accascia al suolo morente e la statua, giusto nel momento del trapasso, risponde: sono venuta a cercarti...aspetto questo giorno da molti anniFinalmente, eccolo arrivato. Dammi la mano, lascia che ti guidi. L’imperatore, oramai spettro, sussurra: Ero così impaziente. Staremo per sempre insieme. Non mi lascerai mai… La nostra vera felicità è qua, e non avrà fine…La macchina da presa torna tra le “cortine” di seta, seguendo idealmente gli amanti di nuovo riuniti. Solo i fantasmi consolano, solo gli spiriti ridono.