TRAMA
1938: innamorata di uno svizzero che aiuta gli ebrei a fuggire dalla Germania nazista, Willie diventa molto popolare fra i soldati con la canzone “Lili Marlene”. La gestapo non sa come muoversi nei suoi confronti, pur sapendo che intrattiene rapporti con il nemico.
RECENSIONI
Storia di una canzone, di un mito popolare fra le fila militari durante il nazionalsocialismo. Un lavoro su commissione che certa critica ha letto come formalista e superficiale, con Fassbinder che si limita ad omaggiare il mélo con una drammaturgia più tradizionale. Non è propriamente così: l’autore mantiene un certo velo straniato, ironico, per quanto poco calcato, che trasporta la materia filmica su sponde surreal-fiabesche per coadiuvare il lavoro dell’espressiva (splendida) fotografia a tinte unite ed accese (il blu per l’amore, il rosso per la passione, il bianco del successo vanesio, e così via), delle scenografie barocche, di una macchina da presa molto mobile sui carrelli, di un elaborato montaggio (meraviglioso quello alternato fra fiori donati alla cantante e bombe al fronte: in tutta l’opera è forte e sarcastico il contrasto fra le atrocità della guerra e l’ascesa al successo di Lili) e dei copiosi punti di inquadratura (con frequenti sguardi attraverso porte vetrate). La canzone in sé (“Scritta da un musicista cialtrone e cantata da una voce da gallina”), poi, diventa ironicamente simbolica: un brano triste e deprimente, poco in linea con le esigenze wagneriane di Goebbels, che ha incantato (indebolendolo?) un popolo entrando in competizione con l’altro feticcio di massa, Hitler (divertente la sua apparizione), sfruttando gli stessi medium, vanamente osteggiata, infine vittoriosa. L’assurgerla a fautrice della caduta del Terzo Reich diventa rilettura fantasiosa per ridicolizzare la potenza di quell’impero. Il problema dell’opera è un altro: certe imperfezioni vestivano meglio le produzioni minimaliste e a basso budget di Fassbinder, centrate più sugli attimi che sul “totale”, nutrite con scarti ed ellissi narrative. In mancanza della loro affascinante profondità-ambiguità-complessità, lascia molto a desiderare la poca cura della verosimiglianza dei fatti esposti. Mancano, infatti, fondamentali passaggi chiarificatori: ad esempio, sul cambio d’umore/amore del personaggio ossigenato di Giancarlo Giannini (per quanto la grottesca tortura inflittagli, il disco che s’incanta, potrebbe essere una tragicomica spiegazione) e sull’identità dell’ufficiale nazista collaborazionista che prende in custodia il filmino. Soprattutto, si perde per strada una chiusura soddisfacente. Fassbinder appare come capo della resistenza.
